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 Economia Riduci

Privatizzazioni?
Elogio del clientelismo

Ce le chiede perentoriamente l’Unione europea, le pretendono i mercati, sono previste nella manovra economica. Ma è davvero una buona idea? Bisognerebbe riflettere sul fatto che se l’Italia è diventata una delle prime economie mondiali è grazie all’intervento pubblico
 
(pubblicato su Repubblica.it il 14 luglio 2011)
 
Privatizzare subito, privatizzare tutto. E’ la nuova – si fa per dire – parola d’ordine di un nutrito gruppo di economisti, fa parte delle richieste (perentorie) dell’Unione europea, le prevederà anche la manovra italiana.
 
Può sembrare singolare definire “nuova” l’istanza alle privatizzazioni, visto che da trent’anni se ne parla a profusione. E in effetti la sola novità sta nel fatto che sta riemergendo con prepotenza: l’occasione è l’acutizzarsi della crisi che ci ha colpito. La tesi è che vendere tutte le proprietà pubbliche, Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica, Fintecna, Cassa depositi e prestiti, Rai, aziende municipalizzate, farebbe risparmiare sugli interessi (il ricavato va ad abbattere il debito, non il deficit), produrrebbe una drastica cura dimagrante per un settore pubblico inquinato dal clientelismo, soprattutto darebbe un segnale forte ai mercati, i famosi mercati che oggi vendono a piene mani i nostri titoli pubblici e che sono come una belva che va sfamata.
 
Sul Sole24Ore Roberto Perotti e Luigi Zingales stimano in 170 miliardi (30 dei quali per le municipalizzate) il possibile ricavato, con un conseguente risparmio di 6 miliardi nella spesa per interessi su debito pubblico. Certo, farebbero comodo. Ma, a parte il fatto che in questa fase non si capisce bene da dove potrebbero arrivare tutti questi soldi, siamo sicuri che sia una buona idea?
 
Quando si parla di assetti proprietari, purtroppo, ci si avvicina all’atteggiamento psicologico del tifoso: al cuore non si comanda. Così, il partito dei “liberisti” vede nello Stato la fonte di tutti i mali, riecheggiando il famoso aforisma di Ronald Reagan: “Lo Stato non ha dei problemi, lo Stato è il problema”. E dunque la proprietà e la gestione pubblica sono per definizione inefficienti, clientelari, corrotte, costose. Il loro profeta è James M. Buchanan, premio nobel per l’economia nel 1986 (occhio a quella data: l’era Thatcher-Reagan è in pieno corso), che parte dall’assunto che i politici, come riassume Wikipedia, “non aspirino a promuovere il bene comune, ma siano guidati dall'obiettivo della massimizzazione dell'utilità, ossia da quella stessa “mano invisibile” che li guida nell'operare in mercati privati, ritenendo più importanti interessi personali (come prestigio, ricchezza, potere, vantaggi fiscali)”. Dunque, meno i politici maneggiano e meglio è, e il solo sentir parlare di politica economica a questi economisti fa venire l’orticaria.
 
Il partito opposto è quello che viene definito con un certo disprezzo degli “statalisti”. Comprende sicuramente una certa quantità dei personaggi descritti da Buchanan, ma anche molti sinceramente convinti che, se pure esiste la “mano invisibile”, una mano non ha occhi e non può vedere duqnue quali sono le scelte migliori per la società nel suo complesso. In altre parole, l’obiettivo del profitto genererà forse più efficienza, ma non è sufficiente per una serie di problemi e in una serie di situazioni. Il loro padre nobile è John M. Keynes, vituperato (dagli altri) per trent’anni ma le cui teorie sono tornate di moda quando si è trattato di affrontare l’esplosione della crisi del 2008.
 
Tra i due “partiti”, quello più compatto ed estremista è il primo, mentre nel secondo c’è un’ampia gamma di posizioni. Quando ci si scontra sulle teorie è praticamente impossibile arrivare a mettersi d’accordo. Ma la storia, a quale dei due ha dato ragione?
 
In realtà anche a questa domanda è praticamente impossibile dare una risposta definitiva. I modelli sono modelli, la realtà è molto più complessa ed entrano in gioco una serie di fattori il cui peso è difficilmente ponderabile, dalla demografia al possesso di materie prime alla struttura politica, senza contare che forse solo l’Unione Sovietica ha realizzato un’economia statalista che era quanto di più vicino al modello teorico si potesse pensare. In nessun altro caso un modello “puro” è stato sperimentato. Ma stringiamo il campo e limitiamoci ad esaminare che cosa è successo in Italia, anche perché le vicende del nostro paese offrono parecchi spunti di riflessione su problema.
 
Fino agli anni ’90 del secolo scorso dell’Italia si diceva che era il paese più “statalista” del mondo dopo l’Urss: e non era un’osservazione peregrina. Erano infatti direttamente controllati dallo Stato oltre il 90% del sistema del credito e la maggior parte della grande industria (e non solo quella grande) attraverso Iri, Eni ed Efim. Una situazione che aveva avuto inizio con la crisi degli anni ’30 (Iri) o nell’immediato dopoguerra (Eni). Ebbene, sarebbe davvero difficile sostenere che la mano pubblica ha fallito. In circa un ventennio un paese uscito dalla guerra quasi completamente distrutto si sarebbe conquistato un posto fra le prime economie mondiali, nonostante il pesante handicap della mancanza di materie prime.
 
Non era scontato e nemmeno probabile che in Italia potesse nascere uno dei giganti petroliferi mondiali (com’è noto Enrico Mattei era stato mandato all’Agip per liquidarla), in un settore dominato dall’oligopolio delle “Sette sorelle”. La struttura del settore telecomunicazioni era quanto di più barocco e apparentemente inefficiente si potesse immaginare, con la tripartizione in Stet (la finanziaria di controllo), Sip (la società operativa dei telefoni) e Asst (l’azienda di Stato per i servizi telefonici), certamente con duplicazioni di strutture e migliaia di dipendenti in eccesso: eppure il settore italiano delle Tlc, prima della privatizzazione, era tra i leader tecnologici a livello mondiale, cosa che purtroppo non si può più dire della Telecom, privatizzata male, fiaccata poi dalla scalata dei “bresciani” e non certo risollevata dalla gestione successiva. Era pubblico l’acciaio, altro settore strategico, che però al contrario non è una storia di successo: qui le scelte pubbliche furono a un certo punto tragicamente errate, con un piano faraonico di espansione proprio mentre l’ingresso sul mercato mondiale di tanti altri produttori avrebbe dovuto far pensare all’esatto contrario. Ma gli errori strategici non li fanno solo i gestori pubblici, come purtroppo dimostra la fine ingloriosa di tanti giganti privati, dalla Montedison alla Olivetti alla Electrolux.
 
Si potrebbe proseguire con la Fincantieri, oggi messa in ginocchio dalla concorrenza sleale dei costruttori cinesi e coreani, ma fino a ieri fra i leader mondiali del settore. O con l’Enel, ancora a controllo pubblico e uno dei gruppi più internazionalizzati del paese. O con la Fimeccanica (già Iri), tuttora fra i gruppi più competitivi a livello internazionale nel settore difesa.
 
La maggior parte di questi gruppi – se non tutti – sono stati nel passato e in qualche caso anche oggi al centro di scandali, finanziamenti illeciti a partiti e politici, clientelismo, scelte guidate dalla ragion politica piuttosto che dalla razionalità economica. Ma se l’Italia è quello che è in massima parte si deve a loro, mentre il capitalismo privato non ha dato una prova altrettanto buona.
 
Viva il clientelismo, allora, se alla fine tirando le somme il risultato è positivo. Almeno distribuisce un po’ di stipendi che alimentano la domanda interna, invece di assegnare bonus milionari solo a un pugno di manager, spesso senza nessun rapporto con i risultati ottenuti.
 
E allora, invece di privatizzare rifacciamo l’Iri? Assolutamente no. Quello che qui si cercava di sostenere è che non ha senso contrapporre per principio un “privato efficiente” a un “pubblico sprecone”. Bisogna vedere caso per caso, a seconda del settore, del servizio, del problema di cui si sta discutendo. Un altro esempio? Il sistema sanitario italiano, pubblico e universale, nelle classifiche dell’Organizzazione mondiale della sanità occupa stabilmente le primissime posizioni. Costa complessivamente circa la metà (in rapporto al Pil) di quello americano, il più costoso del pianeta, quasi tutto privato. Ma gli Usa in quelle classifiche sono parecchi posti più in basso di noi. I liberisti “doc” vi diranno che questo è dovuto alla cattiva regolamentazione, cioè, anche in questo caso, è colpa dei politici. Sarà anche così, ma allora si potrebbe replicare che, visto che la perfezione non è di questo mondo, le nostre inefficienze nel gestire un sistema pubblico sono comunque assai minori di quelle americane nel regolarne uno privato. All’opposto, questo governo ha buttato dalla finestra risorse preziose per un (finto) salvataggio dell’Alitalia, una società di servizi la cui rilevanza pubblica è prossima allo zero. Qui sì che l’intervento pubblico è stato insensato!
 
In conclusione, andiamoci piano a dar retta ai privatizzatori a oltranza. Ci servono soldi, è vero, ma un fotografo che per saldare un debito vende la sua reflex poi non lavora più. Il problema su cosa sia meglio privatizzare e su cosa sia meglio mantenere il controllo pubblico merita di meglio che una diatriba tutta ideologica.

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