Lavoro, cresciuto solo un Pil
Il governo continua a vantare gli effetti sull'occupazione dei suoi provvedimenti, ma da un'analisi dei dati diffusi dall'Istat non emergono effetti di rilievo non solo dal Jobs act, ma nemmeno dai cospicui sgravi fiscali, e il limitato aumento dei posti di lavoro va probabilmente attribuito solo al ritorno alla crescita dell'economia
(pubblicato su Repubblica.it il 23 dic 2015)
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, ospite ieri sera di Ballarò, si è esibito nell'ennesima laudatio del Jobs act e degli altri provvedimenti sul lavoro. Ma a guardare l'ultima rilevazione trimestrale dell'Istat la sua soddisfazione non sembra giustificata, e anzi si deve concludere che neanche i ricchi incentivi per i neo-assunti ce l'hanno fatta a smuovere la domanda di lavoro. Gli incentivi sono entrati in vigore all'inizio dell'anno, seguiti a marzo dal Jobs act, ma l'occupazione mostra una dinamica fiacchissima nonostante il ritorno in positivo del dato sulla crescita economica. Addirittura, non si vedono differenze rispetto all'andamento del 2014, che pure era stato il terzo anno consecutivo con il segno meno davanti al Pil.
Le statistiche sul lavoro sono più complesse di quanto possano sembrare a prima vista, e ognuna fa vedere una sfaccettatura della realtà. Di solito si parla solo di occupati (che per essere considerati tali basta che abbiano lavorato per un'ora retribuita nella settimana precedente alla rilevazione) e di disoccupati (che per rientrare nella definizioni devono aver cercato attivamente lavoro nel tre mesi precedenti, altrimenti sono "inattivi"). Ma sono interessanti anche altri dati, come le Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (Ula: si ottengono componendo i vari spezzoni, per esempio di chi fa part-time, fino ad ottenere un orario completo). Anche questi dati forniscono visioni parziali: il numero delle Ula, per esempio, risulta più alto di quello degli occupati, perché se c'è chi fa part-time c'è anche chi fa il doppio o persino triplo lavoro. E si riferiscono agli orari contrattuali, che nella maggior parte dei casi sono diversi dalle 40 ore standard (per gli insegnanti per esempio sono di meno, ma contano lo stesso per una Ula). Il conteggio di un posto a tempo pieno quindi differisce tra un comparto e l'altro.
In ogni caso anche questi sono indicatori di "quanto lavoro c'è", e forse più efficaci del dato sugli occupati. Vediamo l'andamento delle Ula a partire dal picco massimo dell'occupazione raggiunto nel 2008.
Come si vede, il minimo del periodo è stato raggiunto nel 4° trimestre del 2013, anno che si chiuse con un pil a -1,8%. Da allora - nonostante, come si è detto che anche il 2014 sia stato negativo - inizia una lenta, lentissima salita, in cui in ogni trimestre successivo si fa un passetto in avanti. Tutti passetti, e tutti più o meno uguali. Gli sgravi di inizio 2015 non cambiano il ritmo, e tanto meno il Jobs act. E nonostante la ripresina di quest'anno, siamo ancora molto lontani dal dato del 2008. Se non si accelera (e dai documenti di bilancio non ci sono previsioni in tal senso) ci vorranno molti anni per tornarci: 13, secondo i calcoli del centro studi Economia Reale di Mario Baldassarri.
D'altronde, basta guardare i numeri assoluti. Su 22.647.000 che risultano occupati nel terzo trimestre di quest'anno, l'aumento rispetto al terzo trimestre del 2014 è stato di 247.000 unità, un +1,09% che potrebbe essere considerato soddisfacente in tempi normali, ma non in una fase di disoccupazione altissima e con i cospicui incentivi messi in campo dal governo. Solo 97.000 sono a tempo pieno e 149.000 a tempo parziale; il totale di questi ultimi arriva così a 4.198.000, ma per quasi due terzi di loro si tratta di una scelta "bevi o affoga", perché non hanno trovato di meglio. La loro incidenza sul totale degli occupati sale di uno 0,4%: è evidentemente dovuto a questo il fatto che le ore lavorate per dipendente scendono, come si vede dalla figura 5 qui sotto. Poi, va anche considerato che quell'1% è comunque qualcosa in più della crescita del Pil e che il recupero è cominciato l'anno scorso con un Pil ancora negativo. Come sottolinea Leonello Tronti, che insegna Economia del lavoro alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, questo va a ulteriore scapito della produttività. "Oggi il problema più importante è che cresce lavoro povero, senza investimenti e senza produttività: più gente deve andare a lavorare per mantenere lo stesso tenore di vita. Il vero scandalo è questo".
Ma torniamo ai dai Istat (da qui si raggiunge il testo integrale). La figura 3 ci fa vedere, con la linea continua, l'andamento dell'occupazione, che come si vede corrisponde a quello delle Ula. E con gli istogrammi la composizione di questa occupazione. I dipendenti a tempo indeterminato (colonnine grigio chiaro) sono per lo più sotto lo zero, mentre per quelli a termine (rosso) prevalgono gli aumenti. Insomma, il Jobs act effetti sull'occupazione non ne ha avuti, e quelli sulla sua composizione (cioè più dipendenti a tempo indeterminato) sembrano essersi esauriti in appena due trimestri (ma in uno solo le assunzioni a tempo indeterminato superano quelle a termine). E allora che lo abbiamo fatto a fare? Solo per far contenta la Confindustria e i tecnocrati e i conservatori europei, non si può che concludere. E forse non ci siamo ancora riusciti, visto che la Bce continua a chiedere riforme che facciano scendere i salari: ma questo capitolo del Bollettino Bce merita una riflessione a parte, che faremo in un prossimo articolo.
Nel frattempo, i lavoratori (e i disoccupati) sentitamente ringraziano.