Licenziati per profitto
Una sentenza della Cassazione ribalta i criteri in base ai quali si stabiliva il "giustificato motivo" del licenziamento: non conta se l'azienda è in difficoltà, sulla tutela del posto di lavoro prevale quella della libertà imprenditoriale. Un'interpretazione forzata della Costituzione che risponde ai paradigmi della cultura politico-ideologica dominante
(pubblicato su Repubblica.it l'8 gen 2017)
L'aumento del profitto è più importante del mantenere un posto di lavoro. Nei giorni scorsi una sentenza della Cassazione (segnalata da Italia Oggi e ripresa da Repubblica) ha convalidato un licenziamento motivato con il perseguimento di una maggiore efficienza da parte di un'azienda né in crisi né in passivo. Questa la frase-chiave della motivazione:
"Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa".
Osserva il giuslavorista Umberto Romagnoli: "L’espressione “giustificato motivo oggettivo” dà luogo ad una tipica clausola generale che, in quanto tale, deve essere riempita dall’interprete. Finora ha prevalso un orientamento politico-culturale più limitativo del potere aziendale. Lo schema argomentativo è il seguente. Il licenziamento provoca un sacrificio la cui entità va confrontata con quella del danno che subirebbe il datore se non licenziasse e, poiché il sacrificio del lavoratore è valutato altissimo, il datore può licenziare solo se l’azienda va male. Adesso, è in ascesa uno schema argomentativo che proporziona il sacrificio del lavoratore al beneficio che il licenziamento procura al datore".
Diciamolo in termini più semplici. La norma detta un principio generale, ma è poi il giudice a valutare se e quando il motivo del licenziamento è "giustificato". In altre parole, il giudice decide quale sia il danno maggiore: quello del lavoratore che viene licenziato o quello dell'azienda che - essa sostiene - sarà meno efficiente?
Come dice Romagnoli, in passato la bilancia è stata fatta pendere dalla parte dei lavoratori. In più d'un caso troppo, bisogna dire. Dagli anni '70 e per oltre un ventennio le sentenze erano tutte - tranne poche eccezioni - favorevoli al lavoratore, anche in casi che sembravano indifendibili, come nullafacenti conclamati, assenteisti inveterati, persino ladri: tanto da far nascere il refrain "in Italia è impossibile licenziare". Quei magistrati non hanno fatto un buon servizio non solo alla giustizia, ma anche agli interessi dei lavoratori: inevitabilmente facevano montare una voglia di reazione, una rabbia profonda nei confronti di quella legge che sembrava voler coprire qualsiasi ingiustizia. Nasce di qui la guerra dichiarata all'articolo 18.
Ma se il motivo era comprensibile, la battaglia era sbagliata: la colpa delle distorsioni non era della legge, ma dell'interpretazione che se ne dava. Che poggiava, è vero, sul dettato costituzionale (art. 1: "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro..."; art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto"; art. 35: "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni"), ma certamente i padri costituenti non intendevano che bisognasse proteggere anche i ladri o i fannulloni.
Nel corso degli anni '90, comunque, l'aria comincia a cambiare. Le sentenze non sono più così scontate, e col passare del tempo quelle favorevoli alle aziende aumentano sempre di più. Naturalmente è impossibile stabilirlo con precisione, ma l'impressione è che, a partire dalla fine del secolo, la bilancia sia tornata più o meno ad equilibrarsi. Ciò nonostante, l'articolo 18 era diventato ormai il simbolo di uno scontro tanto ideologico quanto di potere nei rapporti di forza all'interno dei mondo del lavoro, tanto da far combattere infinite battaglie intorno a questa norma, fino all'epilogo ad opera di un governo che si definiva di centro-sinistra.
La sentenza dei giorni scorsi, però, segna un nuovo salto di qualità: la bilancia, già squilibrata a favore dei datori di lavoro dopo la quasi eliminazione delle tutele, si inclina sempre di più dalla parte delle aziende. Nel dispositivo viene citato l'art. 41 della Costituzione, che garantisce la libertà d'impresa. E' vero, ma leggiamolo tutto:
"L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali".
I giudici della Cassazione si sono fermati al primo capoverso? Perché il secondo e il terzo dovrebbero far escludere che la possibilità di conseguire un maggior profitto (sostenuta da una delle parti in causa e non verificabile dal giudice) possa prevalere sulla tutela del lavoro.
Ma lo spirito dei tempi soffia impetuoso nelle aule della giustizia. Ieri spingeva il pendolo dalla parte del lavoro, facendolo oscillare oltre il punto di equilibrio. Oggi, dopo oltre un quarto di secolo in cui sono state le idee neoliberiste a conquistare l'egemonia, lo sposta altrettanto esageratamente sul lato opposto, forzando il dettato costituzionale che di sicuro prescrive di tutelare il lavoro, mentre da nessuna parte è scritto che vada altrettanto - e anzi di più - tutelata non la libertà d'impresa, ma la facoltà di incrementare i profitti. I giudici sono uomini del loro tempo, e come tutti sono condizionati dalle idee che in quel tempo sono dominanti. Naturalmente il dispositivo della sentenza non evita il problema, e lo risolve sostanzialmente così:
"Non spetta al giudice (...) surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l'impresa e per la collettività.
Egli, così, non può essere legittimato a gravare l'impresa di costi impropri o non dovuti in base alla legge, quando piuttosto la Costituzione investe i poteri pubblici del compito di perseguire l'interesse collettivo dell'occupazione, tenuto altresì conto che la prospettiva individuale della difesa del singolo rapporto di lavoro potrebbe anche pregiudicare (...)l'intera comunità dei lavoratori dell'azienda interessata".
Che il giudice non debba valutare la congruità delle decisioni dell'impresa lo affermano peraltro due altre recenti leggi, del 2010 (governo Berlusconi) e 2012 (governo Monti). E questo è ragionevole. In passato, però, la stessa Corte riteneva necessario che "il licenziamento per motivo oggettivo sia giustificato dalla necessità di fare fronte "a sfavorevoli situazioni" e non sia "meramente strumentale ad un incremento del profitto". Ora questo principio viene invece giudicato sbagliato, con un ragionamento che ricorda il trickle down, quell'idea - tra i capisaldi del pensiero neoliberista - secondo cui un provvedimento a vantaggio dei ricchi va bene per tutta la società, perché poi quella ricchezza "gocciolerà" a beneficiare anche i meno abbienti. La realtà dei fatti si è poi incaricata di fare giustizia di questa idea balzana.
L'atmosfera culturale è cosa che cambia lentamente, e di norma ha una grande capacità di persistenza anche quando cambiano le condizioni generali. Se questa sentenza è rappresentativa dell'orientamento maturato dalla magistratura, per il lavoro ci saranno tempi duri per parecchio.