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 Politica Riduci

Draghi comincia male
Il fisco è una materia che segna un discrimine tra politiche di destra e di sinistra, e quello che il neo-presidente ha detto nel suo discorso al Senato – richiamando la riforma fiscale danese – ha un chiaro segno di destra e risponde a una logica cara al neoliberismo più demagogico

(pubblicato su Repubblica.it il 17 feb 2021)

Un discorso programmatico disegna le grandi linee e non è la sede per indicazioni specifiche sul programma di governo. Ma almeno una Mario Draghi l’ha data, e su una materia importante come il fisco, che è una di quelle che segnano un discrimine tra politiche di destra e di sinistra. E la sua indicazione punta chiaramente a destra.

“La Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L'aliquota marginale massima dell'imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata”.

Draghi pronuncia questa frase parlando del fatto che una riforma fiscale non si può fare ritoccando una tassa qua e una là, ma bisogna considerare il sistema nel suo Mario Draghicomplesso: e questo è giusto fuor di ogni dubbio. Ma nell’esempio che va a pescare non parla solo di metodo, aggiunge un’indicazione precisa sulla direzione che potrebbe prendere la riforma: riduzione di due punti del prelievo sia elevando la fascia esente, sia riducendo l’aliquota marginale, cioè quella che si paga sulla quota più alta del reddito. Meno tasse ai poveri, ma anche meno tasse ai ricchi.

Commenta Paolo Borioni, storico esperto di economia e particolarmente competente sui paesi scandinavi: “Si tratta delle riforme introdotte dal centro-destra danese nel 2001-2011, anni di ancora (si credeva) rampante neoliberismo. In sostanza l’idea per cui con meno tasse c’è maggiore stimolo a lavorare e produrre. Il che beneficerà il fisco a sua volta, che dunque potrà poi ridurre ancora le tasse. I benefici deriverebbero anche dal fatto che meno classi disagiate sarebbero a carico del welfare, che così si può progressivamente tagliare”.

Il neo-presidente ha riaffermato che sarà mantenuta la progressività, ma di fatto prevede di restringerne l’intervallo, e prevede benefici anche per i più benestanti, che semmai – in questa situazione – dovrebbero essere chiamati ad aumentare il loro contributo al bilancio pubblico. Bisognerà poi vedere come sarà compensato quel 2% in meno di entrate. Non certo con maggior deficit, visto che il ministro dell’Economia Daniele Franco, la cui sintonia con Draghi è fuori discussione, ha già parlato della necessità di un saldo primario positivo per l’1,5% del Pil. Quindi quei soldi – circa 35 miliardi – bisognerà trovarli o aumentando l’imposizione da qualche altra parte (dove? A chi?) o tagliando la spesa (ancora una volta: dove? A svantaggio di chi?).

Dovremo aspettare per avere una risposta a queste domande. Ma intanto è preoccupante la logica sottesa all’esempio scelto da Draghi: una logica cara al neoliberismo più demagogico, quello che si rifiuta di accettare ciò che la storia ha già ampiamente dimostrato. Una logica che ha fatto impennare le disuguaglianze a livelli che non si vedevano da un secolo.

Se il buon giorno si vede dal mattino, all’orizzonte appaiono nuvole nere.


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