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 Economia Riduci

 

Il pollaio Europa e la volpe Miliband

 

Il premier britannico Gordon Brown ha rilanciato la candidatura di David Miliband a ministro degli Esteri dell’Ue. Per Brown sarebbe un doppio vantaggio, ma per l’Europa designare alla carica più importante il rappresentante del paese che da sempre ne frena lo sviluppo sarebbe come mettere la volpe a guardia del pollaio

 

 

(pubblicato su Repubblica.it il 10 nov 09)

 

La candidatura di David Miliband, ministro degli Esteri inglese, a ministro degli Esteri dell’Unione europea, risponde certamente a esigenze interne della politica britannica – o, più probabilmente, alle esigenze personali del premier Gordon Brown – ma suona piuttosto assurda rispetto a quello che la nuova figura dovrebbe rappresentare per l’Unione.

 

Bisogna innanzitutto ricordare che la nuova figura istituzionale prevista dal Trattato di Lisbona, di recente faticosamente approvato anche dagli ultimi Stati membri, sarà la più importante tra le nuove istituite. Se infatti da un punto di vista teorico l’Unione avrà al vertice un presidente non più a rotazione semestrale fra gli Stati membri, ma designato per due anni e mezzo e rinnovabile per altrettanti, bisogna però considerare che il nuovo ministro degli Esteri avrà una doppia veste. Sia intergovernativa – come il presidente – che sovranazionale, in quanto diventerà di diritto anche vice presidente della Commissione Ue. Sarà la prima volta nella storia comunitaria che vengono sommate queste due caratteristiche, che configurano per questo incarico un rilievo senza precedenti. Fatto confermato da un ulteriore e non secondario dettaglio: a differenza del presidente, il ministro degli Esteri guiderà uno staff dedicato, avrà cioè a disposizione, per svolgere il suo compito, una struttura specifica. Naturalmente rimane in gran parte una scommessa l’effettiva rilevanza che assumerà il ministro nel determinare una politica estera unitaria europea, finora del tutto mancata con la conseguenza di ridurre enormemente il peso politico dell’Unione nelle trattative sui problemi internazionali. Molto dipenderà dall’autorevolezza del designato e molto dall’effettiva intenzione dei paesi membri di rinunciare a un’altra fetta di sovranità nazionale in cambio però di una forza che nessuno di essi da solo potrebbe mai avere.

 

E’ quest’ultimo l’eterno dilemma dell’Europa, non ancora sciolto. Se cioè l’Unione debba essere essenzialmente una zona di libero scambio, che mette in comune alcune cose ma rimane “l’Europa delle patrie”, dove dunque le istituzioni comunitarie rimangono sempre più deboli e in secondo piano rispetto agli organismi intergovernativi a cui restano affidate le decisioni sui problemi più importanti, che dunque non possono che giungere dopo faticose mediazioni che, come l’esperienza insegna, ne indeboliscono fortemente l’incisività; oppure se si debba procedere verso una prospettiva federale, che non può non implicare un passo indietro di ciascun governo a favore del rafforzamento delle istituzioni comunitarie.

 

La figura del nuovo ministro degli Esteri potrebbe favorire significativamente questa seconda prospettiva. Ma proprio per questo è necessario chiedersi che senso avrebbe affidarla ad un britannico. Il Regno Unito, infatti, è storicamente il più accanito rappresentante della prima tendenza, il campione delle “clausole di salvaguardia” che permettono di non partecipare a numerose decisioni stabilite via via nei vari trattati, compresa quella senza dubbio di maggior rilievo, ossia la creazione della moneta unica a cui com’è noto Londra non partecipa, e il secondo accordo in ordine di importanza, quello di Schengen (sulla libera circolazione dei cittadini europei e la cooperazione anticrimine). Che senso avrebbe affidare un compito cruciale per l’evoluzione dell’Unione europea a un rappresentante del paese che più di ogni altro ha dimostrato di non ritenere opportuna questa evoluzione? Il senso – anche al di là dei meriti e delle intenzioni del personaggio eventualmente designato, sarebbe uno solo: che quella scommessa di cui si parlava partirebbe già perdente. E, se così fosse, trascinerebbe con sé anche le altre prospettive di progresso unitario (nel senso della prosecuzione del processo verso un vero assetto federale) negli altri campi importanti, primo fra tutti quello di una politica economica comune.

 

I Laburisti britannici da tempo precipitano nei sondaggi elettorali e si dà praticamente per certo che le prossime elezioni segneranno il ritorno al governo dei conservatori. Il gradimento del premier Gordon Brown è ai minimi storici e da tempo monta nel suo partito l’ipotesi di presentarsi alle elezioni con un nuovo leader per tentare un recupero in extremis sull’opposizione guidata dal giovane David Cameron (classe 1966). David Miliband (classe 1965) è una delle personalità del Labour più accreditate per sostenere questa sfida dopo essere stato insediato al posto di Gordon Brown.

 

L’attuale primo ministro inglese, candidandolo alla più importante poltrona europea, prenderebbe così due piccioni con una fava: potrebbe vantare un risultato di grande prestigio per il suo paese e si toglierebbe di torno il più pericoloso concorrente alla sua poltrona (che del resto Miliband non è ansioso di occupare per andare incontro a una sconfitta elettorale quasi certa). Per lui, la quadratura del cerchio; per l’Europa, come mettere una volpe a guardia del pollaio.

 


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