Franceschini e la paura
di dire "sinistra"
Le prime mosse del "segretario di passaggio", messo lì a prendersi qualche nuova sconfitta elettorale e in attesa del candidato "vero", sono migliori di quanto ci si potesse aspettare e sembrano indicare una discontinuità. Se avrà il coraggio di portare a fondo l’analisi sugli errori commessi, potrebbe conquistare una vera leadership
(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 2 mar 2009)
“Dopo un disastro, non si elegge il vice-disastro”. Questo cordiale benvenuto a Dario Franceschini appena designato nuovo segretario del Pd, espresso in un’intervista a La Stampa, è di Matteo Renzi, rampante giovanotto già pupillo di Rutelli che ha appena vinto le primarie per la candidatura a sindaco di Firenze battendo il concorrente che era proposto dalla struttura del partito. Renzi è uno di quelli che, se passasse la linea del “cambio di generazione” e del “puntare su un giovane”, tenterebbe la scalata alla segreteria del partito. Per portarlo dove? “E' finita la fase in cui si stabiliva prima la linea, e poi si sceglieva il segretario: oggi è il segretario che condivide, discute e dà la linea”. Come dire: ma che programma, lasciate fare a me!
In quella frase non c’è solo presunzione personale, c’è una concezione di partito. Un partito che non costruisce un progetto: sceglie un leader da cui farsi guidare, un leader in cui si possano (si debbano) riconoscere culture politiche anche molto distanti fra loro, perché punta ad aggregare almeno la metà più uno degli elettori; un partito del bipolarismo, non vincolato a una storia (che non riguarderebbe, appunto, la maggioranza degli elettori) né al territorio, ma alla suggestione mass-mediatica “Io sono più bravo del mio rivale”. Un partito all’americana, post-ideologico. Un partito come quello che abbiamo già sperimentato. Il partito del disastro.
Le prime mosse e i toni di Dario Franceschini, il “gestore di passaggio”, vittima predestinata del prossimo bagno elettorale, messo lì per non bruciare il prossimo candidato “vero” alla segreteria (e chi dovrebbe essere?), sono migliori di quanto ci si potesse aspettare. Giurare sulla Costituzione nella mani del padre partigiano non era un atto dovuto, e proprio per questo di maggior valore simbolico in un momento in cui la Carta fondamentale è sotto attacco e la storia sembra diventata un ingombro invece che un valore. “Fino a qualche decennio fa la Costituzione, l'antifascismo e la laicità erano valori condivisi da tutte le forze politiche”, ha detto. “Oggi sembra che non sia più così. Noi però vogliamo che torni ad essere così”. Dire che l’opposizione a Berlusconi è una lunga battaglia che comincia “per difendere la democrazia italiana” significa aver chiaro quale sia la posta in gioco. Proporre un assegno mensile a tutti i disoccupati è, nella sua semplicità, una delle ricette più valide per combattere le conseguenze delle crisi non solo da punto di vista sociale, ma anche da quello economico.
Franceschini è cattolico ed ex democristiano, ma nella vergognosa vicenda del “ddl-Englaro” ha dimostrato di avere un concetto della laicità della politica e dello Stato ben superiore a quello dell’ex radicale Rutelli (e di molti altri ex democristiani ora nel Pd, purtroppo). Nella nuova segreteria che ha designato non ci sono capi-corrente, ma amministratori locali e persone che hanno un legame diretto col territorio.
Insomma, il “vice disastro” si è mosso finora nel segno di una netta discontinuità rispetto alla linea di Veltroni, che è stata una scommessa manifestamente perdente. Le prossime mosse ci diranno se questo ripensamento coinvolgerà gli altri punti principali che hanno fatto fallire il tentativo di Veltroni: non perché fosse inadeguato lui come leader, ma perché era sbagliato il suo progetto. Ecco alcuni punti a mio parere cruciali.
Sinistra. Un’identità che Veltroni aveva rifiutato. “Non siamo un partito di sinistra, siamo un partito riformista”, aveva annunciato appena eletto. Già. L’idea era che se si vuole fare un partito che raccolga la maggioranza degli elettori non si può usare un’etichetta che, al suo massimo storico, tra Pci, Psi e qualche altro, è arrivata ad aggregarne poco più del 40%. Un’idea coerente con una visione del sistema politico bipolare e bipartitico, in cui però non tanto di “partito” – come sempre nella concezione italiana si è inteso – si può parlare, ma di un agglomerato in cui esistono una quantità di posizioni anche molto distanti tra loro. Come i partiti americani, appunto. In un “partito” di questo genere non ci si riconosce tanto per un progetto di società, ma essenzialmente per la figura del leader. Ed ecco il dibattito sulla fine della differenza tra destra e sinistra, su una distinzione che sarebbe ormai sorpassata. Ma “riformista” non significa nulla. Tutti i partiti sono “riformisti”, nel senso che si propongono di cambiare poco o tanto della realtà sociale. Il partito oggi al governo ha appena varato una legge sul diritto di sciopero: si tratta senz’altro di una “riforma”. Va bene solo per questo, perché cambia qualcosa? O non c’è qualcosa da dire anche sul come la cambia? E in base a che cosa si può dare un giudizio, se si pensa di poter fare a meno di un progetto di riferimento?
Dire “sinistra” significa riferirsi ad una storia, a una cultura politica, a un’idea di società. Non per accettare tutto acriticamente, certo, non per non cambiare nulla. Ma per non rinnegare da dove si viene e far capire in che direzione si vuole andare. Si possono aggiungere delle specifiche, si può dire “sinistra riformista”, persino “sinistra moderata”. Ma non si dovrebbe abbandonare il termine. Persino una parte della Dc non aveva remore a definirsi “di sinistra”, e Franceschini lo sa bene. Non abbia paura di quell’identità, non abbia paura di quella parola: la dica.
Bipolarismo, bipartitismo. Abbiamo appena detto quali sono le principali conseguenze del bipolarismo-bipartitismo. Due agglomerati in cui sono costrette a convivere culture e posizioni in cui ogni gruppo ha con un altro gruppo dell’agglomerato alcune posizioni comuni, mentre su altri problemi le distanze possono essere siderali. Luigi Bobba, uno dei leader dei cosiddetti teo-dem, è stato presidente delle Acli, e in quel ruolo ha espresso sui problemi del lavoro posizioni del tutto compatibili con uno schieramento “di sinistra”. Dal punto di vista del rapporto con la religione, però, si è rivelato un reazionario integralista. Possono stare nello stesso partito lui ed Emma Bonino? Nel bipolarismo sono costretti a farlo, come il radicale Benedetto Della Vedova si trova intruppato nello schieramento degli “atei devoti” e di chi vorrebbe imporre l’espropriazione del diritto più inalienabile, quello a decidere sulla propria vita. Ha senso?
Il multipartitismo permette di dar vita a formazioni dove non esistono differenziazioni così estreme, dove è possibile elaborare un progetto di società in cui ognuno degli aderenti si possa riconoscere. Il leader del partito certo conta, ma il voto torna ad avere – come fino a vent’anni fa – una importante componente identitaria.
Le obiezioni: ma così si torna a un sistema in cui votando non si sceglie il governo, si torna ai giochi e ai patteggiamenti fra capi-partito, si inficia la governabilità. Cominciamo da quest’ultimo punto. Non bisogna confondere i meccanismi di selezione della rappresentanza con quelli di garanzia della governabilità. Rispetto a questi ultimi esistono biblioteche di studi di ingegneria istituzionale, le cui indicazioni possono essere applicate benissimo anche a un sistema multipartitico. L’abbandono del bicameralismo perfetto, lo sbarramento (e, aggiungiamo, la modifica o la non-deroga dei regolamenti parlamentari) per impedire un’eccessiva frantumazione dei partiti, la sfiducia costruttiva, tanto per fare alcuni esempi, sono riforme assolutamente compatibili con un sistema multipartito. Che poi la scelta del governo sia affidata a una mediazione di secondo livello (tra i partiti) invece di essere espressa direttamente dagli elettori, è cosa che in una democrazia rappresentativa non dovrebbe spaventare. Partiti dalle identità più definite rispetto a due mega-agglomerati tratteranno su un programma che concordano di realizzare insieme. In compenso a me elettore laico e di sinistra non capiterà di dover votare una lista dove compaia Paola Binetti, la signora in cilicio, mentre il pio Gaetano Quagliariello non potrà mai avere il dispiacere di doverne votare una in cui sia presente il (potenziale) mangiapreti Della Vedova.
Economia, lavoro, giovani. La drammatica crisi che sta sconvolgendo il mondo dovrebbe segnare il tramonto dell’ideologia (proprio così: ideologia) che ha dispiegato la sua egemonia negli ultimi trent’anni: quella del neoliberismo trionfante, del mercato che è sempre il più efficiente allocatore delle risorse, dello “Stato minimo”, della ri-privatizzazione dei rischi sociali in nome di una supposta valorizzazione della responsabilità personale e di un’idea della libertà come rifiuto delle responsabilità collettive. Dovrebbe, ma in realtà ancora non se ne vedono i segni. La forzata e massiccia discesa in campo degli Stati per tentare di tamponare le conseguenze del disastro è accompagnata da preoccupati cori della maggior parte degli economisti sui sicuri guasti che ne verranno se il “pubblico” non si ritirerà al più presto, ripristinando la situazione quo ante con al massimo qualche piccola modifica nelle regole del suo funzionamento. Un partito di sinistra (anche “riformista”, anche “moderata”) dovrebbe elaborare su quanto sta accadendo una analisi che non si limiti ad accettare la favoletta che è tutta colpa dei mutui subprime, o addirittura, come arrivano a sostenere i liberisti più dogmatici, degli interventi sbagliati degli Stati nell’economia.
Di questa analisi dovrebbe far parte anche una riflessione sul lavoro, la sua protezione, le sue caratteristiche. Se l’imprescindibile parola d’ordine degli ultimi 10-15 anni è stata “flessibilità”, bisognerà pur chiedersi se è equo, ragionevole e sostenibile che la crescita economica debba avere come premessa e come conseguenza la precarizzazione di massa e l’incertezza esistenziale per la maggior parte del mondo del lavoro. Se è equo, ragionevole e sostenibile che la crescita dell’economia vada a vantaggio di élites sempre più ristrette mentre un numero sempre maggiore di persone vede peggiorare la propria condizione e le prospettive dei suoi figli. Se questo processo, che si è accentuato negli ultimi quindici anni, abbia davvero rappresentato un vantaggio per il funzionamento dell’economia nel suo insieme.
Infine, i giovani. Quando una classe dirigente fallisce – e questa ha certamente fallito, e purtroppo non solo in Italia – è di prammatica l’invocazione “largo ai giovani”. I quali devono avere il loro posto nella società e anche tra le leve del potere, ma non sono di per sé depositari né della verità né di soluzioni che miracolisticamente dovrebbero derivare dal non aver avuto tempo di fare troppi errori. Di tante cose c’è bisogno, ma non di nuovi espedienti retorici magari da parte di chi pensa, attraverso qualche giovane, di poter continuare a fare il burattinaio. Ci sono giovani validissimi – e in linea di massima lo spazio non c’è bisogno di concederglielo, perché se lo prendono – ma attenzione al gioco di chi usa il giovanilismo per sbarrare la strada a persone che giovani non sono, ma negli ultimi anni hanno avuto idee e comportamenti – verificabili perché pubblici – che avrebbero evitato almeno gli errori più gravi che sono stati commessi.
Franceschini è stato il “vice-disastro”, è vero. Ma, ripetiamo, le sue prime mosse sembrano mostrare una consapevolezza che proprio per questo bisogna cambiare. Ha davanti nove mesi in cui nessuno lo caccerà via. Non sono molti, ma più che sufficienti per disegnare un nuovo partito e una nuova stategia. Se avrà il coraggio di farlo e di portare a fondo l’analisi sugli errori commessi, traendone le conseguenze, il suo “passaggio” alla segreteria del Pd potrebbe essere più lungo di quanto chi ce lo ha messo potesse prevedere.