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 Stato sociale Riduci

L’Ocse e i conti senza le tasse

 

L’organizzazione ha diffuso una studio in cui confronta i sistemi previdenziali dei paesi membri e  da cui risulta che l’Italia spende in rapporto al Pil il doppio della media. Ma la metodologia utilizzata (anche da altre istituzioni sovranazionali e nazionali) si presta a parecchie obiezioni

 

(pubblicato su Repubblica.it il 23 giu 2009)

 

I numeri sono una cosa da maneggiare con cura, perché possono essere pericolosi. In apparenza sono neutrali (“la forza delle cifre”), ma non è così: uno stesso conteggio può essere fatto con diversi metodi, e i risultati possono essere niente affatto simili.

 

L’Ocse e altre organizzazioni sovranazionali (Fmi, World Bank, Commissione Ue) o nazionali (banche centrali, istituti di statistica e di ricerca econimica) sono grandi produttori di numeri. E su di essi si basano per esprimere pareri, impartire consigli, elaborare ricette. Spesso i consigli e le ricette sono chiesti dai governi dei paesi interessati, che vogliono dividere la responsabilità politica di decisioni impopolari con soggetti presupposti “indipendenti” (“Ce l’ha chiesto l’Europa, lo ha detto il Fondo monetario”).

 

Oggi l’Ocse ci dice che la spesa per pensioni in Italia è la più alta tra i paesi aderenti all’organizzazione. Ma questo conteggio è fatto in un modo piuttosto singolare. Nello stesso rapporto, qualche riga più avanti, risulta che anche la tassazione sulle pensioni in Italia è il doppio della media. In altre parole: lo Stato con una mano dà, ma con l’altra prende. Siccome i soldi escono ed entrano dalla stessa cassa, basterebbe il buon senso – senza neanche tirare in ballo la razionalità economica – per capire che i conti dovrebbero essere fatti sul saldo. Quanto si spende per le pensioni al netto delle tasse sulle medesime? In Germania, per esempio, non c’è bisogno di fare conteggi del genere, perché le pensioni sono praticamente detassate. Quella tedesca, dunque, è una spesa previdenziale effettiva, ma l’Ocse la confronta con la nostra (senza considerare le nostre tasse).

 

Conosciamo già la risposta a questa obiezione: le convenzioni internazionali prevedono che le statistiche si facciano in questo modo e non in un altro. Bene: sono immutabili, le metodologie internazionali? Sono sempre state così? Non cambieranno mai? Se ci si rende conto che la metodologia non è corretta, si continua ad usarla senza preoccuparsene?

 

L’Ocse ci dice anche che i contributi previdenziali in Italia sono molto elevati, pari al 33% della retribuzione, contro una media del 21% negli altri paesi. Non ci dice, però, se quel 21% è l’aliquota di equilibrio (ossia se quel livello di contributi basta a coprire la spesa previdenziale o una parte di essa è a carico della fiscalità generale).

 

In Italia si pubblica ogni anno il “Rapporto sullo Stato sociale”, elaborato da un gruppo di università e curato dall’economista della Sapienza Roberto Pizzuti. Da alcuni anni in questo rapporto si fa il saldo fra spesa previdenziale e introiti di contributi e tasse sulle pensioni: ebbene, questo saldo è positivo: secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2006, la previdenza non ha pesato, ma ha contribuito al bilancio pubblico per 11 miliardi di euro. Come si vede, i risultati dei conteggi non sono “oggettivi”, dipendono dal metodo usato. E il metodo, spesso, dipende dagli obiettivi che si vogliono perseguire.

 

C’è poi un altro fattore da considerare. I dati sulla previdenza diffusi dalle organizzazioni internazionali (ma anche da quelle nazionali) riguardano la spesa per la previdenza pubblica e non si occupano di quella privata. Rileviamo en passant che per la sanità, per esempio, non si fa così: quella che si osserva è la spesa complessiva in relazione al Pil, che poi viene suddivisa in pubblica e privata. Ma ciò che conta è che questo è un altro grave errore metodologico. In tutti i paesi la previdenza privata gode di agevolazioni fiscali più o meno generose, che naturalmente pesano sui bilanci pubblici esattamente come se fossero sovvenzioni (in termine tecnico si chiama tax expenditure). E allora, perché ignorare l’importo di queste agevolazioni? Il bello è che è stato proprio un ricercatore dell’Ocse, Willem Adema, a fare i conti considerando tutti questi fattori, dimostrando che il bilancio delle spese sociali nei vari paesi cambia in modo clamoroso.

 

Restiamo in attesa che i “produttori di numeri” – compreso il nostro Istat – prendano atto che nelle loro metodologie c’è qualcosa da rivedere e si accordino su nuovi standard di rilevazione. Nel frattempo, questi numeri prendiamoli per quello che valgono: poco.


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