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 Economia Riduci

Troppa flessibilità 
fa male ai muscoli
 
Di che cosa si parla quando si discute di posto fisso? I discorsi degli imprenditori e di molti economisti sottintendono una realtà inesistente, ossia che l'impresa non abbia possibilità di dosare il fattore lavoro secondo le esigenze produttive. Sarebbe invece più utile, guardando alla storia del XX secolo e degli ultimi 30 anni in particolare, chiedersi se la flessibilità non sia nociva per l'economia in generale e anche per il funzionamento delle imprese
 
(Pubblicato su Eguaglianza & Libertà e su Insightweb il 5 nov 2009)
 
Il dibattito sul “posto fisso” innescato dalla recente dichiarazione di Giulio Tremonti assume certamente, come è stato sottolineato da alcuni esponenti del centrosinistra, aspetti piuttosto paradossali in un periodo di forte crescita della disoccupazione, che peraltro cancella prima di tutto tutta la gamma dei posti a vario titolo “flessibili”. Eppure sarebbe un errore concentrarsi su quest’ultimo aspetto ed evitare quindi una discussione nel merito. Perché è proprio questo tipo di discussione che stanno invece portando avanti tutti i sostenitori della flessibilità, per riaffermare concetti che negli ultimi due decenni hanno contribuito a quel corpo di teorie diventato tanto dominante da meritare di essere chiamato “pensiero unico”.
 
Dopo la devastante crisi globale ampie parti di quel “pensiero” vengono ora messe in discussione, ma su questo tema – l’opportunità che il lavoro sia il più possibile flessibile – non si è ancora sviluppato un vero contraddittorio. L’osservazione di Tremonti è stata per lo più giudicata ovvia dalla sinistra, dunque non meritevole di approfondimenti. Ben diversa la reazione del fronte liberista-imprenditoriale, da parte del quale ci si preoccupa invece di trovare qualche giustificazione teorica al rigetto della tesi espressa dal ministro dell’economia (hai visto mai che non fosse solo propaganda ma l’annuncio di un cambiamento di rotta?…).
 
Senz’altro degno di segnalazione, in proposito, è un articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino sul Sole 24 Ore del 29 ottobre, che è davvero un piccolo capolavoro di faziosità. I due se la prendono con Tremonti (il “traditore” che ha rotto il fronte; con quelli di sinistra manco vale la pena di discutere). Quella dichiarazione del ministro, affermano, prefigura il mantenimento di un “piccolo mondo antico”, in cui tutti si assumono meno rischi, che è il modello prevalente in Italia e anche la causa per cui il nostro paese perde competitività rispetto alle economie più aperte al nuovo. Dopo di che si ingegnano a disegnare questo “piccolo mondo” e lo fanno, bisogna riconoscerlo, con molta abilità, perché descrivono fenomeni che effettivamente esistono nel nostro paese e li legano l’uno all’altro in un discorso filato che porterà un lettore frettoloso – o con una momentanea riduzione del tasso di attenzione critica – a convenire sul fatto che mentre gran parte degli altri paesi marcia verso un futuro di prosperità noi stiamo sprofondando sempre più nell’arretratezza.
 
Solo che i passaggi logici sono tutt’altro che inattaccabili, quelli di causa-effetto a volte fantasiosi e altre volte forzati, o magari eccessivamente semplificatori, pretendendo di spiegare con una sola variabile fenomeni che meriterebbero una maggiore articolazione dell’analisi. Prendiamo per esempio questa frase: “Le imprese spaventate dal non poter adattare la forza lavoro a seconda delle esigenze produttive assumono meno, generando code di giovani in cerca di primo impiego e possono imporre condizioni retributive peggiori perché non temono che i lavoratori per questo si spostino altrove, dato che rimanere vicino casa è necessario per sfruttare il welfare familiare.

Ma dove lo hanno verificato i due autori che “le imprese sono spaventate dal non poter adattare la forza lavoro alle esigenze produttive? Dovrebbero sapere che circa la metà dei lavoratori italiani sta in imprese con meno di 15 dipendenti, dove non ci sono vincoli ai licenziamenti. E dovrebbero essersi accorti che in quest’ultimo anno la cassa integrazione, a fronte di una caduta della produzione di oltre il 25%, ha mostrato aumenti a tre cifre. Non sarà per caso un adattamento della forza lavoro alle esigenze produttive? Inoltre, dal 1997 (“pacchetto Treu”) le imprese hanno a disposizione più di trenta tipologie di contratti tanto flessibili da aver dato origine a una massa cospicua di precariato, per giunta sottopagato. Se in ormai 12 anni questo non ha ancora risolto la coda per il primo impiego forse è un po’ da faciloni imputare tutto alla mancanza di flessibilità, non è vero?

Andiamo avanti: “Possono imporre condizioni retributive peggiori perché non temono che i lavoratori per questo si spostino altrove, dato che rimanere vicino casa è necessario per sfruttare il welfare familiare”. Gli elementi di questa affermazione potrebbero essere composti in modo diverso: “I bassi – spesso miserabili – salari del primo impiego rendono impossibile mantenersi autonomamente lontano da casa e questo frena la mobilità dei lavoratori”. Abbiamo detto le stesse cose, ma l’effetto è un po’ cambiato, no?
 
Sarebbe troppo lungo e forse non troppo avvincente per chi legge discutere tutte le affermazioni contenute nell’articolo di Alesina e Ichino. Qui si voleva solo dare un’idea del perché si era lanciata l’accusa di faziosità.
 
Il giorno dopo Il Sole chiede a otto fra docenti, imprenditori e manager un parere sull’articolo (e su un altro di Roberto Perotti, di ben altra lucidità, di cui non parliamo perché tratta di altro). Riportiamo alcuni dei titoli dati alle loro risposte perché ci sembra che esprimano bene il tono generale: “No, danneggia i giovani (il posto fisso, naturalmente, ndr); “Ritorno all’Urss”; Niente passi indietro”; “Cambiamo l’articolo 18”. Insomma, l’attuale flessibilità come la linea del Piave, su cui resistere a tutti i costi e da cui auspicabilmente lanciare l’offensiva per spostare ancora più avanti il fronte.
 
Ma di cosa si parla quando si dice “posto fisso”? Forse bisogna precisarlo, per evitare che i meno informati pensino che i lavoratori assunti a tempo indeterminato non potranno mai essere licenziati, per nessun motivo, e quindi in un periodo di crisi siano destinati a trascinare inesorabilmente al fallimento lo sfortunato imprenditore che li ha assunti, in una sorta di “Muoia Sansone con tutti i Filistei” a rovescio.
 
Ebbene, non è così. In Italia gli unici licenziamenti vietati sono quelli individuali senza una giusta causa: quelli impediti, appunto, dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma se un’azienda è in crisi può licenziare e come; e si è visto, del resto, in particolare in quest’ultimo anno. Se invece è in crisi per un problema che si ritiene passeggero (una momentanea caduta della domanda, la necessità di una ristrutturazione) può utilizzare la cassa integrazione ordinaria, e quindi comunque sollevarsi, per il periodo che le è necessario, dalla forza lavoro eccedente le necessità produttive. Questo nelle aziende medio-grandi; in quelle piccole,come già detto, si può fare di tutto, anche licenziare un dipendente perché è diventato antipatico.
 
L’unico settore in cui il posto fisso è fisso davvero è il settore pubblico; e in questo caso, anche con qualche protezione di troppo, di cui però, spesso, più che le norme sono responsabili i magistrati che le applicano.
 
Ma perché, allora, gli imprenditori insistono tanto sulla flessibilità, se già ne hanno a sufficienza? Una prima osservazione potrebbe essere che – se è per questo – insistono anche sul costo del lavoro, nonostante che quello italiano (sia netto che lordo) sia tra i più bassi dei paesi Ocse. In altre parole: se si può avere di più, perché accontentarsi?
 
Ma sulla flessibilità c’è qualcosa di più. Perché si scrive flessibilità, ma si pronuncia libertà di licenziare. Ora, meno limiti ci sono alla possibilità di licenziare e più ridotto è il potere contrattuale dei lavoratori. Provate a chiedere a qualcuno dei due milioni e mezzo di lavoratori “flessibili” quando è stato che hanno avanzato l’ultima rivendicazione, personale o collettiva, salariale o normativa. Provate a chiedervi come mai in quella metà del lavoro dipendente che si colloca nelle piccole imprese a cui non si applica lo Statuto dei lavoratori il sindacato è pressoché assente e la contrattazione di secondo livello del tutto sconosciuta. Se hai paura di poter essere cacciato su due piedi sei disposto a ingoiare parecchi rospi e a passar sopra al fatto che non vengano rispettati i tuoi diritti. Il fatto dunque di “proteggere il lavoro e non il posto di lavoro”, come teorizzano i cantori della flexsecurity, non è senza conseguenze dal punto di vista della struttura delle relazioni industriali. Certo, una flexsecurity seria, che stenda davvero una rete di protezione per chi perda il lavoro, garantendogli un reddito non miserabile e facilitandogli una nuova collocazione, attenuerebbe le conseguenze negative in termini di sbilanciamento del potere tutto dalla parte datoriale. Ma comunque non le annullerebbe, perché per il lavoratore si aprirebbe comunque una fase di incertezza e ovviamente non avrebbe garanzie che, pur trovando in tempi ragionevoli una nuova occupazione, questa sarebbe equivalente alla precedente sia come remunerazione che come qualità.
 
Bene, diranno tutti gli imprenditori e la grande maggioranza dei liberisti (se non tutti); e allora? Il fatto che gli imprenditori siano assolutamente liberi di disporre come meglio credono della forza lavoro – come degli altri fattori della produzione – è un’ottima cosa, che può solo far bene allo sviluppo, affidando al mercato il bilanciamento della distribuzione della ricchezza prodotta. E chi meglio del mercato potrebbe farlo? Un’obiezione del genere trascurerebbe però alcuni fattori di qualche rilievo. I progressi tecnologici prima, e la globalizzazione più di recente, hanno fatto sì che l’offerta di lavoro sia strutturalmente eccedente rispetto alla domanda;e questo è uno dei motivi per cui l’equilibrio che deriva dal mercato ha fatto sì che negli ultimi due decenni gli incrementi di ricchezza abbiano avuto una distribuzione fortemente sbilanciata a svantaggio del lavoro. Ma il processo era iniziato già prima: negli Stati Uniti, per esempio, già dagli anni ’70. E questo proprio perché è da quel paese, dove già i diritti dei lavoratori erano meno protetti che in Europa – specie per quanto riguarda la possibilità di organizzarsi sindacalmente – è iniziata l’ondata neoliberista che ha ulteriormente indebolito la loro capacità contrattuale.
 
Globalizzazione e neoliberismo hanno dunque fatto sì che la maggior parte degli incrementi di ricchezza andasse alla parte alta della piramide sociale, amplificando le disuguaglianze nella distribuzione del reddito. Questo non ha fatto bene all’economia, frenando la crescita dei consumi di massa (problema a cui negli Usa si è tentato di ovviare con l’espansione dei debiti privati, con le conseguenze che oggi stiamo sperimentando) e orientando lo sviluppo verso i settori del lusso, che però non sono un volano altrettanto potente: non può essere questa una plausibile spiegazione della riduzione generalizzata del ritmo di sviluppo nel Vecchio continente? Riduzione di cui gli Usa è sembrato che non soffrissero, ma solo grazie alla bomba dei debiti che nel frattempo si innescava e all’abnorme sviluppo della finanza che ha generato le bolle alla fine esplose.
 
Lo squilibrio di potere nei rapporti di lavoro è dunque dannoso in quanto una delle cause, se non la principale, della mancata redistribuzione degli incrementi di ricchezza. Ma potrebbe non essere un toccasana anche rispetto alla miglior gestione possibile delle imprese. Qui entrano in gioco molte variabili e dunque sarebbe azzardato avanzare più che un’ipotesi. Si può però ben osservare che da una parte abbiamo una petizione di principio (“meno vincoli di ogni genere ha l’imprenditore e meglio può svolgere il suo lavoro”), dall’altra c’è la storia di almeno un secolo e mezzo che è stata storia di un progressivo aumento dei diritti dei lavoratori e quindi di irrigidimento nell’uso del fattore lavoro, ma è anche stato il periodo di maggior sviluppo economico della storia dell’umanità. C’è da considerare il progresso scientifico e tecnologico, certo; ma non ce n’è stato certo meno negli ultimi vent’anni, che sono stati quelli dell’impetuoso sviluppo dell’informatica, della rivoluzione Internet, e anche dell’evoluzione della finanza, che, depurata dagli eccessi ormai ben noti, è pur sempre un fattore fondamentale del progresso dell’economia. Diciamo allora che si deve tener conto di almeno un legittimo sospetto che un maggior bilanciamento dei poteri di datori di lavoro e lavoratori finisca per migliorare anche lo sviluppo delle imprese.
 
E qui il cerchio si chiude con il ritorno alla flessibilità e al “posto fisso”. Avere la mano libera sul fattore lavoro può tanto semplificare il compito dell'imprenditore da quel lato da non stimolarlo a cercare di aumentare il livello competitivo riguardo agli altri aspetti dell'impresa. Chi invece di salire le scale prende sempre l’ascensore, di sicuro fa meno fatica. Ma a lungo andare, altrettanto sicuramente, i suoi muscoli si inflaccidiscono.
 
Commenti
 
Rosita Donnini e Valerio Selan - Aggiungeremmo un'argomentazione ulteriore. Le aziende serie, proprio per competere ad alto livello tecnologico, privilegiano (esse stesse) il "posto fisso". Tenendo conto dei costi della formazione professionale nel posto di lavoro (sfridi di lavorazione, tempo impiegato dai colleghi più anziani per monitorare ed addestrare i nuovi assunti - e cioè il cosiddetto "learning by doing") - considerano correttamente un licenziamento come una minusvalenza. Non a caso, nella crisi attuale, hanno privilegiato la Cig rispetto alla mobilità (anche fino al limite della sopravvivenza).
 
Massimo D’Antoni – Condivido la tesi dell’articolo; solo qualche osservazione. Giustissimo sottolineare che i vantaggi della flessibilità sono per gli imprenditori in termini di forza contrattuale. L'effetto però passa a mio avviso anche per una riduzione del livello di "capitale umano specifico" dei lavoratori; i lavoratori hanno infatti meno interesse ad investire nell'impresa, preferendo mantenersi "liquidi" in vista del possibile licenziamento.
Ciò spiegherebbe tra l'altro come sia possibile che il salario scende anche quando il mercato lo rende dipendente dalla produttività (non è cioè necessario ipotizzare che il salario sia una variabile
indipendente): il lavoratore nel mercato flessibilizzato investe di meno in competenze specifiche all'impresa.
Facendo un passo più avanti, potremmo chiederci quale sia il rapporto tra flessibilità e specializzazione produttiva del paese. Il mio timore è che la flessibilità all'italiana ci spinga verso quei settori meno dinamici (perché basati su lavoro non qualificato) in cui la concorrenza è con paesi a costo del lavoro più basso, in un circolo vizioso. Tesi di questo tipo purtroppo non sono ben sviluppate nella letteratura economica, anche se si legano bene a tutto il filone sulle
"varietà di capitalismo" di autori come Iversen e Soskice, che sono politologi ma sul rapporto tra welfare, protezione del lavoro e investimenti in capitale umano danno dei punti agli economisti.
Altra piccola osservazione: un economista "ortodosso" potrebbe aver da ridire sull'idea che vi sia un'eccedenza "strutturale" di lavoro, osservando che l'eccedenza è sempre funzione del salario.
 

Carlo Clericetti - Se fosse formulata in questo modo quest'ultima obiezione sarebbe astratta, in quanto i rapporti di lavoro non si possono misurare come se si aggiungessero pesi sui due piatti di una bilancia fino a quando non si trova l'equilibrio; tanto l'offerta di lavoro quanto i livelli dei salari sono influenzati in modo rilevante da variabili quali la cultura (in senso antropologico), l'organizzazione sociale e quella politica, i fattori geopolitici specie dopo la globalizzazione, ecc. Variabili che interagiscono in modi troppo complessi per pensare che possa essere raggiunto un equilibrio "meccanico" come quello che l'obiezione presuppone.

Post scriptum
Tre anni e mezzo dopo aver scritto queste cose mi sono imbattuto in un articolo di Alberto Bagnai in cui si parla di due studi di economisti secondo i quali la bassa produttività (o il suo rallentamento) è appunto legata all'aumento della flessibilità nell'impiego del lavoro.

Il primo studio è Gordon, R.J. and Dew-Becker, I. (2008) “The role of labor market changes in the slowdown of European productivity growth”, CEPR Discussion Papers, February. Per chi non lo conoscesse, il Cepr è un think-tank indipendente di grande reputazione.

Il secondo è Daveri, F. e Parisi, M.L., “Temporary workers and seasoned managers as causes of low productivity”, paper presented at the Ifo, CESifo and OECD Conference on Regulation “Political Economy, Measurement and Effects on Performance”, Munich, 29-30 January 2010. Bagnai non concorda con questa tesi e ritiene invece che la causa sia l'adozione dell'euro, ma non si vede perché le due spiegazioni debbano essere alternative. Mi fa comunque piacere che le mie osservazioni concordino con quelle di economisti di professione espresse in sedi autorevoli.


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