Vendola, Pisapia: due indizi
sono più di mezza prova
Le primarie per il candidato sindaco di Milano hanno ripetuto il copione già visto in Puglia. Il messaggio per il Pd dovrebbe essere chiaro: i suoi elettori non vogliono la marmellata veltroniana, ma un partito che ritrovi un’identità nell’ambito della sinistra
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 16 nov 2010)
Le primarie per il candidato sindaco di Milano hanno ripetuto il copione già visto in Puglia. Il candidato di un piccolo partito non rappresentato in Parlamento ha prevalso su quello del maggior partito di opposizione. Recita il vecchio detto che tre indizi valgono una prova: qui siamo a due, quindi almeno oltre la metà. Ma forse non è il caso di aspettare il terzo, di indizio, forse un ragionamento politico è meglio farlo subito.
I sondaggi elettorali, si sa, non sono una scienza esatta. Ma, anche dando per scontato un margine di errore piuttosto ampio, quelli recenti attribuiscono a Sinistra e Libertà, il partito di Vendola e Pisapia, non più del 7-7,5% (e si tratterebbe già di un clamoroso progresso); al Pd, che pure appare nettamente in declino di consensi, tra il 22 e il 25%, cioè più del triplo. Come mai alle primarie metà di coloro che hanno intenzione di votare Pd preferiscono il candidato di Sl? Si può aggiungere un’ulteriore tara per considerare il possibile effetto della diversa notorietà personale dei candidati (vince un premio chi ricorda al volo il nome dello sfidante di Vendola…). Ma il messaggio sembra chiaro. Per storia, tradizione, struttura, il Pd rimane il partito dell’alternativa, quanto meno il partito-cardine di una possibile alternativa. Ma così com’è ora non piace e anche chi spera che vinca non perde occasione per mandare segnali di insoddisfazione.
E com’è ora il Pd? Senza identità, si è detto. Il disastro ha un volto e nome: Walter Veltroni. Spiace dirlo, perché si tratta di una persona aprrezzabile da molti punti di vista e di valore sul piano umano. Ma se si tratta di dare un giudizio politico, è lui il simbolo del male niente affatto oscuro del Pd. Lui anche se il resto dei dirigenti del partito non può certo chiamarsi fuori.
Veltroni è il simbolo di un bipolarismo in cui non c’è spazio non solo per l’utopia, ma neanche per una linea politica definita. In cui, dovendo attirare in un grande contenitore almeno la metà più uno degli elettori, non si possono prendere posizioni definite e le speranze di successo sono affidate al carisma del leader: vince lo schieramento con a capo la persona che riesce a farsi preferire dalla maggioranza degli elettori. Questo contenitore deve cercare di non scontentare nessuno, quindi non si deve definisre “di sinistra”, e deve cercare di pescare in tutti i gruppi sociali non in virtù del modello di società che propone (visto che non può proporne uno preciso), ma, ancora una volta, attraverso personaggi-simbolo: di qui arruolamenti come quello di Massimo Calearo, già presidente “falco” di Federmeccanica. E’ come se avessero fatto cardinale Piergiorgio Odifreddi.
Certo, Veltroni può continuare a vantare il “suo” 33,2% alle politiche 2008. Ma fu un risultato falsato, appunto, dal confronto basato sul bipolarismo. La necessità del “voto utile” prosciugò praticamente tutto il resto dell’opposizione. E nonostante questo il distacco dalla coalizione vincente fu di quasi 11 punti percentuali. Serve altro per capire che è una strada sbagliata? Gli elettori l’hanno rapidamente capito e in molti si sono allontanati dal Pd.
Nessuna identità del partito, dunque, e troppe identità dentro il partito. Si può trovare una sintesi fra i teo-dem e i radicali, tra chi si richiama alla socialdemocrazia e i neoliberisti? Il denominatore, per essere comune, dev’essere men che minimo. Appunto: tanto minimo da non essere più percepibile.
Un partito così lo può fare Berlusconi, tutto basato sulla propaganda: averne visto i comportamenti è come aver letto un manuale di psicologia sociale, terminologia elegante che, applicata senza scrupoli, diventa manipolazione di massa. Populismo delle dichiarazioni e reazionarismo di fatto. Sempre un nemico da indicare al popolo, i comunisti, i magistrati, il “partito delle tasse”. Chi invece vuole fare un partito vero, deve avere uno straccio di progetto condiviso e percepibile. Che non significa, ovviamente, il divieto della dialettica, ma che il confronto avvenga all’interno di un orizzonte comune a tutto il partito.
Il segretario Pier Luigi Bersani è stato invitato in televisione a elencare i valori della sinistra (qui il video). Lo ha fatto anche bene, nei cinque minuti a disposizione. Il problema è che su più d’una delle cose che ha detto un pezzo o l’altro del suo partito non sono affatto d’accordo.
Sembra, se non altro, che il definirsi “sinistra” non sia più bandito. E Veltroni, che ancora di recente in un’intervista al Sole 24 Ore definiva “un tragico errore” tornare ad usare quel termine, dovrebbe forse riflettere sul fatto che pugliesi e milanesi hanno fatto vincere alle primarie due candidati di un partito che “sinistra” ce l’ha nel nome. Erano, come si diceva all’inizio, in grande maggioranza elettori del Pd. Significherà qualcosa?