Quattro “sì” che valgono doppio
I referendum di domenica e lunedì prossimi hanno un’importanza persino maggiore delle elezioni amministrative appena passate. Si decide su argomenti di grende importanza, che condizioneranno la nostra vita per molti anni a venire. Ma hanno anche una chiara valenza politica, perché dovranno confermare o rigettare alcune decisioni chiave prese dal governo
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 9 giu 2011)
I referendum di domenica e lunedì prossimi hanno un’importanza persino maggiore delle elezioni amministrative appena passate. Si decide su argomenti di grende importanza, che condizioneranno la nostra vita per molti anni a venire. Ma hanno anche una chiara valenza politica, perché dovranno confermare o rigettare alcune decisioni chiave prese dal governo.
Sul primo referendum, quello sul nucleare, dopo il disastro di Fukushima davvero non c’è molto da dire. E non tanto perché l’accaduto ha smentito clamorosamente che Chernobil era stata un’eccezione, possibile solo in un paese che usava una tecnologia relativamente poco avanzata e standard di sicurezza inadeguati: il Giappone è tra i paesi più avanzati del mondo e la sua cultura della precisione e della cura dei dettagli è leggendaria. Difficile che si potesse far meglio altrove. Ma non è tanto questo il punto, quanto piuttosto che abbiamo assistito, anche in questo caso, a reticenze nell’informazione, sottovalutazione dell’accaduto, tentativo di far credere che nulla di grave fosse accaduto, anche contro l’evidenza. Le tecnologie possono anche essere quasi perfette, ma sono maneggiate dagli uomini: uomini che inevitabilmente sono guidati dagli interessi, anche quando questi confliggono con il bene comune.
Quanto poi alle favole secondo cui sarebbe inutile rinunciare al nucleare dal momento che ci sono parecchie centrali a poca distanza dai confini (ma anche la Svizzera, dopo la Germania, ha annunciato l’uscita dall’atomo), qualcuno dovrebbe spiegare come mai a Fukushima è stata evacuata prima una zona dal raggio di 20 chilometri, poi di 30 e poi di 50, man mano che emergeva la gravità del disastro. Non significherà per caso che è comunque meglio avere una centrale a 120 km da casa piuttosto che a 10? E non affrontiamo nemmeno il problema delle scorie, eternamente radioattive.
Il secondo referendum, quello sul legittimo impedimento, riguarda direttamente Silvio Berlusconi. Come si sa è una delle tante leggi ad personam fatta approvare dal premier a una maggioranza vergognosamente accondiscendente per accompagnare verso una gloriosa prescrizione i reati di cui è accusato. Che non sono solo quelli legati alle sue attività sessuali: parliamo di sciocchezzuole come la frode fiscale e l’appropriazione indebita, volgarmente detta “furto”. Una vittoria del “Sì” ripeterebbe con molta maggior forza quello che abbiamo letto tante volte sui cartelli nelle manifestazioni: “Fatti processare”.
Ci sono infine i due quesiti sull’acqua, che mentre sembrano suscitare pochi dubbi nella maggior parte dei cittadini, specie in molti di quelli che hanno sperimentato le prime privatizzazioni (ascolta questa intervista di Radio Radicale), ne provocano invece all’interno del Pd, dove sono emersi parecchi casi di diversificazione dalla linea ufficiale del partito, anche di parlamentari ed esponenti di primo piano, che hanno dichiarato che voteranno “no”, alcuni ad entrambi i quesiti, altri soltanto al secondo, quello che riguarda la remunerazione degli investimenti in bolletta. Una delle critiche che vengono mosse più frequentemente, che è poi il cavallo di battaglia dello schieramento avverso, è che si sarebbe fatta una mistificazione propagandistica, facendo credere ai cittadini che si voglia privatizzare l’acqua, mentre in realtà si decide sull’affidamento della gestione tramite gara pubblica e sull’obbligo di vendere ai privati almeno il 40% delle aziende idriche. L’obiezione è tecnicamente fondata, ma di fatto poco rilevante. L’elemento acqua, è vero, resterà comunque pubblico, come la proprietà delle infrastrutture. Ma dato che si affiderebbe il servizio con concessioni lunghissime, venti o trent’anni, qual è la differenza nella sostanza?
Il “fronte del no” afferma poi che l’affidamento del servizio tramite gara pubblica garantirebbe che la gestione sia data a chi garantisce maggiore efficienza. Vero, in teoria, ma solo se questo avvenisse in un quadro di condizioni ben precise. Affrettarsi a fare le gare in un settore ancora non regolato e privo di un’Authority di controllo (quella che il governo si appresta a varare è un’agenzia, meno indipendente e con meno poteri rispetto a un’Authority) porterebbe inevitabilmente, nella maggior parte dei casi se non in tutti, ad esiti assai poco felici per gli utenti. I rincari delle bollette sarebbero sicuri, tutto il resto (investimenti, maggiore efficienza, eccetera) niente affatto. Tanto più che i gruppi che si disputano questo business sono pochi e per lo più molto grandi, il che rende assai poco scontato che si instaurerebbe una reale concorrenza e probabili, invece, accordi collusivi. Aggiungiamo che la vittoria del “sì” abolirebbe anche l’obbligo di cedere ai privati almeno il 40% delle aziende idriche pubbliche entro il 31 dicembre prossimo. Quando si è obbligati a vendere, e in tempi stretti, il prezzo lo fa il compratore: perché dovremmo svendere una parte di patrimonio pubblico?
La materia del secondo quesito è più controversa. Per ragionarci è necessario partire da una posizione di principio: su un servizio pubblico essenziale – e sul fatto che l’acqua lo sia non credo che possano esserci dubbi – è lecito o no che sia consentito un profitto? Io credo di no. Che cosa penseremmo se ci dicessero che l’amministrazione della giustizia deve generare degli utili? Se si è d’accordo su questo si può passare alla seconda parte del problema. Affermano i contrari che l’eventuale prevalenza del sì impedirebbe l’inclusione del costo del capitale nella tariffa idrica. E siccome per gli investimenti – che sono indubbiamente necessari – c’è bisogno di capitali, se il costo di queste sommme non può essere addebitato agli utenti non può che andare a carico della fiscalità generale. Che però può avere altre priorità (dagli asili nido all’assistenza agli anziani, per fare due esempi), col risultato che gli investimenti non si farebbero e la nostra rete idrica continuerebbe ad essere il colabrodo che è ora, con le perdite più alte d’Europa e con molti cittadini, specie nel Mezzogiorno, che hanno un servizio da carente a disastroso.
In realtà però la legge parla di “remunerazione” del capitale investito, e fissa anche a quanto dovrebbe ammontare tale remunerazione: il 7%. Ora, per gli economisti “costo” e “remunerazione” del capitale sono praticamente sinonimi, ma questo non è necessariamente vero. Se io gestore sono un’azienda pubblica la mia necessità è quella di spesare il costo del capitale: il costo e basta, non devo guadagnarci. Se invece sono un privato non mi basta chiudere il bilancio in pari, voglio anche fare un profitto. Se dunque si dice che la tariffa non deve prevedere la “remunerazione” del capitale investito, questo non significa che non possa tener conto del suo “costo”. Certo, è questione di interpretazione, ma come tutti sappiamo il referendum serve per esprimere un orientamento politico, non può entrere nelle specifiche tecniche. E abbiamo numerosi esempi di come in passato gli esiti dei referendum siano stati “interpretati” dalle norme successive: altrimenti non avremmo oggi, per esempio, un ministero delle Risorse agricole, visto che il ministero dell’Agricoltura è stato abolito per ben due volte.
Si può aggiungere che la valutazione degli investimenti (quindi della base su cui dovrebbe essere calcolato l’aumento) non è facile come potrebbe sembrare, neanche se ci fosse – e non c’è né è prevista – un’Authority dotata di forti poteri e competenze. E che la remunerazione fissa del 7%, stabilita anni fa in altre condizioni dei mercati finanziari, oggi appare decisamente eccessiva. In ogni caso non dovrebbe essere prevista per legge, ma trattata con l’Authority – che non c’è – che prenderebbe in considerazione anche un’altra serie di parametri, dai miglioramenti di produttività all’efficienza del servizio, e così via: tutte cose di cui non c’è traccia nell’attuale normativa. Come non c’è traccia di un altro concetto che è invece di grande importanza. Dovunque nel mondo, anche – anzi, soprattutto – nei paesi dove è nata l’onda delle privatizzazioni, Regno Unito e Stati Uniti, le Authority chiedono ai gestori di servizi un aumento costante della produttività. I guadagni che ne conseguono, poi, devono essere divisi fra il gestore e gli utenti, facendo diminuire, o comunque aumentare meno, il costo della bolletta. Anche nei tempi del capitalismo si pensa che i consumatori debbano avere i loro vantaggi. Da noi questo aspetto è evidentemente ritenuto trascurabile.
Certo, votare i due “sì” non risolverebbe nessuno dei problemi attuali, ma eviterebbe ulteriori danni. Danni da cui non sarebbe facile tornare indietro: ricordiamo che le concessioni in questi settori sono lughissime, almeno venti-trent’anni. Una serie di motivi, insomma, che consigliano vivamente di tenerci stretta la gestione pubblica: dopo di che bisognerà comunque affrontare il problemi del settore. Problemi che non sono piccoli, ma neanche irrisolvibili, come dimostrano varie gestioni pubbliche di grande qualità ed efficienza.
Ma in tutto questo la questione forse più importante è anche quella più incerta: si riuscirà a raggiungere il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto, senza cui i refernedum non sono validi? I numerosi referendum proposti negli anni recenti sono tutti naufragati su questo scoglio. Stavolta, però, il caso è diverso, gli argomenti toccano davvero da vicino la nostra vita. Bisogna farsi sentire.