I sette giorni
che cambiarono la finanza
Questa è una fiction, ma mica tanto. La crisi che precipita, il commissariamento dell’Italia, una svolta politica imprevista. Poi l’arrivo di un personaggio in grado di parlare al mondo e dettare le sue condizioni. Tra realtà e fantasia, la storia di come potrebbe andare
(pubblicato su L’Unità il 23 agosto 2011)
Premessa
C’è un vecchio detto che recita: “Se hai un debito di 10.000 euro con una banca, e hai difficoltà a restituirlo, beh amico, allora sei nei guai. Ma se il tuo debito è di 10 milioni, beh, allora è nei guai la banca!”. Proviamo ad applicarlo agli Stati. Se sei la Grecia e hai un debito con il mondo di 350 miliardi, beh, sei un paese in grossi guai. Ma se sei l’Italia, e il tuo debito è di 1.900 miliardi, di cui quasi la metà in mani estere, beh, è il mondo che è nei guai.
La storia
Tutto aveva cominciato a precipitare in quel drammatico inizio d’agosto del 2011. In Italia il governo Berlusconi, già del tutto screditato a livello internazionale, aveva ripetutamente dimostrato di non capire la gravità della situazione e di essere incapace di assumere provvedimenti adeguati a fronteggiarla. Le vendite sui titoli pubblici italiani si erano scatenate. Allora Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, preoccupatissimi perché alcune dello loro maggiori banche avevano in portafoglio montagne di Btp, con l’appoggio del presidente della Bce Jean-Claude Trichet avevano commissariato il governo italiano, imponendogli, come condizione per gli interventi di aiuto, un durissimo programma – precisato in una lettera di Trichet fin nei dettagli e nei tempi – di tagli, liberalizzazioni, privatizzazioni e deregolamentazione del mercato del lavoro. In realtà vari provvedimenti tra quelli imposti poco c’entravano con il consolidamento dei conti, ma i due leader, approfittando della situazione, avevano aggiunto qualche misura – come le privatizzazioni a tappeto – che avrebbe potuto tornare utile ai loro paesi, mentre qualche altra cosa – come le norme sui contratti – era stata aggiunta su richiesta italiana.
Il 14 agosto il governo italiano emanava una serie di decreti per realizzare il diktat ricevuto tramite la Bce, che nel frattempo aveva iniziato gli interventi di mercato a sostegno dell’Italia. Ma servì a ben poco. Innanzitutto perché i mercati giudicarono la cura italiana simile a quella imposta a suo tempo alla Grecia: una manovra che avrebbe depauperato irrimediabilmente il patrimonio dello Stato e avrebbe avuto effetti così pesantemente recessivi da allontanare a un futuro remoto le possibilità di tornare a crescere e quindi di ripagare i debiti. E poi perché nel frattempo i dati segnalavano che l’America stava per tornare in recessione. Ne fece le spese anche la Francia, individuata come l’anello più debole dopo l’Italia. Il presidente Sarkozy annunciò subito una severa manovra di risanamento, che sarebbe stata resa nota il 24 agosto. I dettagli di questa manovra furono diffusi a mercati europei chiusi, dopo un periodo di altissima volatilità in cui però il punto di arrivo, nonostante che i crolli fossero seguiti da impennate repentine, era sempre decisamente più in basso di quello precedente.
La mattina successiva, sui mercati, il pesante ribasso iniziale – segno che anche il piano francese di duri sacrifici era stato giudicato inadeguato – si trasformò ben presto in un’ondata di vendite da panico, mentre i future sul Dow Jones segnalavano che l’apertura di Wall Street era prevista a –8%. Da una rapida consultazione in videoconferenza tra i maggiori leader mondiali uscì un’idea per prendere tempo: si disse che un attacco hacker aveva danneggiato le reti internazionali di clearing, alla qual cosa era dovuto almeno in parte il crollo in atto sui mercati, che dunque dovevano essere immediatamente chiusi fino a riparazione avvenuta. Tutti i governi si riunirono d’urgenza per annunciare nuove immediate misure.
L’imprevisto
Quel 25 agosto, dopo un rapido Consiglio dei ministri in tarda mattinata, Berlusconi aveva chiesto al presidente Gianfranco Fini di convocare la Camera per le 15: avrebbe posto la fiducia sul nuovo provvedimento. I pezzi forti delle nuove misure, non essendoci più nulla da mettere in vendita: età di pensionamento a 77 anni da subito, riduzione dell’80% delle spese per assistenza fino a nuovo ordine, cassa integrazione a zero ore per tre mesi l’anno per tutto il personale della scuola, dell’università e degli enti di ricerca, aumento delle accise su benzina, the, caffè, alcolici, cioccolata e liquirizia, triplicazione del prezzo delle sigarette, riforma della giustizia con il licenziamento immediato di tutti i pubblici ministeri da sostituire con avvocati pensionati pagati a gettone, riduzione dei costi della politica grazie all’abolizione delle tessere per entrare gratis allo stadio.
In quelle ore concitate probabilmente il premier non aveva nemmeno pensato a un altro 25, anche quello estivo, che era stato fatale a un precedente capo del governo. Né aveva considerato che nel frattempo cinque deputati del Pdl erano stati arrestati e dunque non avrebbero potuto votare. Inoltre non poteva sapere che uno zio di Scilipoti godeva dell’indennità di accompagnamento e la coscienza del parlamentare si ribellava a danneggiare il caro familiare. Ma soprattutto non aveva messo in conto che la fede calcistica è a volte più forte di qualsiasi altra, e questo avrebbe spinto altri otto membri della maggioranza a votare contro. Questa singolare concomitanza di circostanze avverse provocò l’imprevedibile: la fiducia fu respinta con due voti di scarto. Esultanza delle opposizioni, sbigottimento della (ex) maggioranza.
Governo d’emergenza
Ma l’esultanza durò poco, perché tutti capivano che la situazione era gravissima. Tutte le forze della ex opposizione si riunirono immediatamente per cercare una soluzione che permettesse di varare in poche ore un governo d’emergenza. Poco dopo il segretario del Pdl, Angelino Alfano, fece arrivare un messaggio in cui proponeva l’appoggio esterno del suo partito a qualsiasi formula fosse stata concordata in cambio della garanzia che a Berlusconi non sarebbe stato ritirato il passaporto.
Risolto il problema dei numeri, tutto ruotava attorno al problema cruciale: chi sarebbe stato il leader del nuovo esecutivo? Serviva certo una personalità di grande caratura, accreditata a livello internazionale. Ma ciascuno dei pochi nomi proponibili per il compito incontrava il veto di questo o quel partito o persino corrente. Lo stallo si protraeva, ma nemmeno la paura delle conseguenze sembrava riuscire a far realizzare una convergenza. Poi, mentre il sole calava e cominciava a diffondersi un vago senso di panico, dal fondo della sala si udì la voce di un deputato quasi sconosciuto: “Ma non si era parlato di un ‘papa straniero’? E allora…” E mentre tutti si voltavano verso di lui disse un nome. La proposta fu accolta da un silenzio che si prolungò per oltre un minuto. Poi, lentamente, un anziano deputato cominciò a battere le mani. Dopo qualche secondo un altro si unì, e poi un altro, e ancora… Habemus papam!
Il papa straniero
Alle sette del mattino successivo fu diffusa a tutte le agenzie internazionali la notizia che di lì a un’ora il nuovo premier del governo italiano, di cui non si faceva il nome, avrebbe diffuso un importante annuncio tramite tutte le televisioni e le radio del paese e tutte le altre straniere che avessero voluto collegarsi. Si generò immediatamente una grande curiosità e una impaziente attesa.
Alle otto in punto sugli schermi di una buona parte dei mezzi d’informazione del mondo, che avevano deciso di coprire l’evento, apparve un uomo anziano che, nonostante fosse seduto dietro a una scrivania, si indovinava molto alto. L’uomo cominciò a parlare in inglese, mentre in video scorreva la traduzione simultanea in italiano.
“Il mio nome è Paul Volcker. Le forze politiche italiane mi hanno chiesto di presiedere un governo di unità nazionale che affronti l’emergenza dell’economia mondiale. Ho deciso di accettare, anche perché il problema non riguarda solo l’Italia”.
Molti avevano già riconosciuto a prima vista l’ex presidente della Federal Riserve americana, e la loro sorpresa si trasformò in enorme stupore dopo queste prime parole. Ma il seguito sarebbe stato ancora più stupefacente.
“In questi anni – proseguì Volcker – abbiamo sbagliato molto. Specialmente i paesi più avanzati, e più di tutti noi americani. L’elenco degli errori sarebbe lungo, ma uno dei più grossi è stato di permettere che si costituisse un sistema finanziario enorme e al di fuori da ogni controllo, un po’ per scelta, un po’ perché quando le imprese finanziarie diventano troppo grandi sono loro a controllare la politica, e non viceversa. Qualche tempo fa il presidente Obama mi aveva chiesto dei consigli sulle misure da prendere per fermare questa follia che sta provocando danni gravissimi a milioni e milioni di persone. Io i consigli li ho dati, ma sono stati attuati in minima parte perché è troppo forte il potere delle lobby che non vogliono reali cambiamenti. Vedendo come andavano le cose mi è venuto da pensare che solo sotto la minaccia di una pistola si sarebbe riusciti ad ottenere qualcosa di concreto”.
Volcker fece una breve pausa, appoggiò le braccia sulla scrivania e si sporse in avanti come per intimidire i suoi invisibili interlocutori. “Ebbene – proseguì – poche ore fa mi è stata offerta una pistola. Una pistola italiana, che come tutti sanno è un’ottima arma. Mi è bastato pensarci pochi minuti per decidere di usarla”. Si adagiò di nuovo contro lo schienale della poltrona. “I giornali scrivono che l’Italia è nei guai. E’ un errore. Tutti siamo nei guai. Il debito pubblico italiano è il terzo del mondo in valore. Se lo Stato dovesse dichiarare il fallimento tutto il sistema finanziario mondiale ne sarebbe sconvolto, al confronto il caso Lehman sembrerebbe una bazzecola. Ebbene, d’accordo con il governo appena formato che presiedo, dichiaro con effetto immediato il completo default per tutti i titoli italiani posseduti da investitori esteri: non saranno pagati gli interessi né rimborsato un euro di capitale. La decisione potrà essere revocata solo se si verificheranno alcune condizioni”.
Mentre tutti mezzi di comunicazione del mondo impazzivano il vecchio banchiere si concesse un lieve sorriso. “Ho ormai 84 anni. Non c’è nessun interesse personale in quello che sto facendo, e nessuno provi a convincermi a tornare indietro perché perderebbe tempo. Queste sono le condizioni”.
La “pistola italiana”
“Il G20, il gruppo dei paesi industrializzati, rappresenta oltre l’85% del Pil mondiale, quindi le sue decisioni coprono praticamente tutto il mondo. Si dovrà riunire immediatamente e stabilire che:
- l’attività bancaria di prestiti all’economia dev’essere separata, anche a livello societario, da quella di investimenti in conto proprio. Solo la prima potrà accedere al finanziamento delle banche centrali;
- a maggior ragione deve essere rescisso ogni legame delle banche commerciali con il “sistema bancario ombra”, come vengono chiamate quelle società fuori bilancio ma di fatto controllate che servono per eludere ogni tipo di controllo e vanificano le disposizioni internazionali sui parametri patrimoniali. Ricordo che solo negli Usa queste shadow bank intermediano almeno 16.000 miliardi di dollari, più del Pil americano;
- diventano illegali i mercati over-the-counter, cioè non ufficiali e non controllati; per tutti i tipi di prodotti finanziari derivati e sintetici deve essere garantita la trasparenza di meccanismi, prezzi e scambi. Ricordo che tra questi prodotti rientrano i Cds (Credit default swap), che dovrebbero essere assicurazioni contro il fallimento di società o addirittura Stati, ma sono prodotti assolutamente opachi il cui effetto è spesso di aggravare le situazioni critiche;
- i rating, cioè le valutazioni di affidabilità di prodotti finanziari, aziende, istituzioni pubbliche e Stati possono continuare ad essere prodotti da chiunque voglia farlo, ma ne è vietato qualsiasi utilizzo ufficiale: le banche centrali non potranno farvi riferimento in relazione ai titoli da accettare a garanzia dei prestiti, non potranno essere usati per valutare la rischiosità degli attivi delle banche, gli statuti dei Fondi previdenziali e assicurativi non potranno prevedere obblighi di investimento in relazione al rating dei titoli;
- nessuna società, finanziaria o industriale che sia, potrà detenere consociate o controllate basate nei paesi che si definiscono “paradisi fiscali”, né intrattenere rapporti di alcun genere con tali paesi, pena l’arresto per azionisti e manager e l’immediata nazionalizzazione della società stessa. Le società hanno sette giorni di tempo per chiudere tutte le posizioni in contrasto con questa norma, dopo di che si procederà contro di loro. Mi dispiace per i nostri cugini britannici, la cui industria finanziaria subirà un duro colpo da questo provvedimento, ma se non fosse reso operativo vanificherebbe tutti gli altri.
Se queste decisioni saranno assunte entro cinque giorni a partire da oggi – concluse Volcker – il governo italiano rinuncerà a dichiarare il default e riprenderà regolarmente a pagare gli interessi e a rimborsare i suoi titoli di debito. Io ho finito, ora datevi da fare”. Si alzò e uscì dallo studio.
Così parlò Volcker, e finanzieri e politici di tutto il mondo rimasero attoniti e frastornati mentre l’immagine della poltrona ormai vuota sfumava e sullo schermo appariva un campo con un gregge di pecore che brucavano con in sovrimpressione la scritta “RAI – Radiotelevisione italiana – Intervallo” (nessuno aveva pensato a cosa trasmettere dopo, e il regista, colto alla sprovvista dalla brusca conclusione, aveva mandato in onda il vecchio tappabuchi).
“Il vecchio è impazzito!”. “Demenza senile, è diventato comunista!”: questi i commenti più benevoli che si potevano cogliere tra i primi che avevano ritrovato il fiato. “Però la pistola ce l’ha davvero, se ci fosse un default di quel tipo collasserebbe l’intera finanza mondiale, trascinandosi appresso il resto dell’economia!”. “Cosa si può fare?”.
Epilogo
Per tutta quella memorabile giornata si incrociarono febbrili consultazioni tra i leader politici mondiali e la grande finanza. Fu presa in considerazione l’ipotesi di invadere l’Italia, ma all’iniziale veto della Cina si affiancarono altri paesi, e non c’era tempo per organizzare un colpo di Stato. Per di più, molti economisti, tra cui non pochi Premi Nobel, intervistati dai grandi network dichiararono che Volcker aveva pienamente ragione e che quelle misure si sarebbero dovute prendere già all’inizio della crisi, senza bisogno che qualcuno dovesse forzarle. Lo stesso Obama, nonostante la tempesta scatenata dalle grandi lobby, era intimamente convinto che quella indicata da Volcker fosse la strada giusta. Alla fine nessuno riuscì a proporre un’alternativa convincente.
La mattina seguente si decise la convocazione per il giorno successivo del G20. Il luogo sarebbe stato il Mount Washington Hotel, località Bretton Woods. Ma non ci fu un gran dibattito, le varie possibilità erano già state esaminate e scartate nei due giorni precedenti. Furono approvate le “Volcker rules”.
Per le società, private della possibilità di eludere le imposte, fu una mazzata, ma se lo potevano permettere. Per un (apparente) paradosso nei due anni precedenti, nonostante la crisi, avevano fatto profitti storicamente elevati e una gran parte, soprattutto le più gigantesche, traboccava di liquidità disponibile. Bastò un solo anno di quel gettito straordinario per attenuare nettamente la crisi fiscale degli Stati, almeno dei più grandi, il che riportò la situazione verso la normalità e permise una generale riduzione delle aliquote per il futuro, incentivando la ripresa degli investimenti. Le banche commerciali continuarono ad essere finanziate a tassi prossimi allo zero dalle banche centrali ancora per qualche tempo, ma quei soldi andavano a sostenere l’economia reale e non le bolle speculative. Tra le società finanziarie ci furono nel periodo seguente diversi fallimenti, ma senza “effetti sistemici”, cioè quei disastri che si propagano a catena. Questo indusse le sopravvissute a una maggiore prudenza nelle loro mosse (del resto anche gli investitori singoli, dopo che molti erano rimasti scottati, erano diventati più cauti nella scelta di chi avrebbe gestito il loro denaro): era stato stroncato il “moral hazard”, cioè l’assunzione di rischi eccessivi dovuta alla certezza che se andava male ci avrebbero pensato Stati e banche centrali al salvataggio. Insomma, pian piano la Grande Crisi di inizio millennio si avviò verso la soluzione. Per qualche anno, forse decennio, il mondo sarebbe stato un po’ più tranquillo. Finché la lezione non sarebbe stata dimenticata di nuovo.