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 Politica economica Riduci

La trappola europea
 
L’accordo imposto al vertice di Bruxelles da Angela Merkel è tutto concentrato sul controllo dei conti pubblici degli Stati membri, senza un disegno per affrontare la crisi con uno sforzo comune. Ma la politica basata sui soli tagli è sbagliata, lo dice persino un documento riservato della Troika (Ue-Bce-Fmi) sul disastro fatto con la Grecia. Stare in questa Europa ci condanna a non crescere, ma uscire dall’euro farebbe danni enormi. Se non cambia qualcosa, avremo un lungo inverno
 
(pubblicato su Repubblica.it il 9 dic 2011)
 
Il risultato del vertice di Bruxelles probabilmente cambierà ben poco per il futuro dell’economia europea. “Frau nein” Merkel e il chiaramente succube Sarkozy propongono la modifica dei trattati in modo da esercitare un ferreo controllo sui bilanci pubblici dei paesi dell’Unione. Una non approvazione sarebbe probabilmente stata accolta da una reazione molto negativa dei mercati, perché l’Europa avrebbe dato l’ennesima prova della sua incapacità di governarsi. Non è andata così, anche se il Regno Unito è rimasto fuori, e in cambio i tedeschi faranno finta di non accorgersi di un maggiore attivismo della Bce sul mercato dei debiti pubblici, cosa che dovrebbe, almeno nel breve termine, frenare l’avvitamento della crisi.
 
Tutto bene, dunque? Forse l’alternativa era peggiore, ma non illudiamoci che questo accordo possa determinare la soluzione dei problemi nei quali ci stiamo dibattendo. Perché quelle modifiche dei trattati e la politica imposta all’Unione dalla cancelliera tedesca disegnano un futuro molto fosco e ci proiettano verso anni di stagnazione dell’economia, se non addirittura di depressione.
 
L’unione fiscale che Frau Merkel ha in mente – saremmo felici se i fatti dei prossimi giorni ci smentissero – non è una tappa verso un’Europa federale che corregga l’assurdità di una moneta senza uno Stato, senza un livello federale con un bilancio proprio in grado di intervenire per correggere gli squilibri che possono colpire gli Stati aderenti. E’ solo un criterio di più stretto controllo dei conti, che lascia poi ad ogni Stato l’onere di aggiustamento e di garanzia del suo debito.
 
Ma, come si dovrebbe aver capito, per rientrare dai debiti pubblici che la crisi ha fatto aumentare enormemente è indispensabile la crescita dell’economia, mentre la politica che si sta adottando va in direzione esattamente contraria: quel poco di spinta che avevano dato i piani di stimolo è già stata soffocata, andiamo verso una nuova recessione. C’è una logica in tutto questo? Sì, c’è, ma purtroppo è sbagliata. E il bello è che lo riconosce anche un documento della “Troika” (Ue, Bce e Fmi) esaminando il caso della Grecia. Il documento è definito “strictly confidential” ed è datato 21 ottobre, la sua diffusione è uno scoop del sito Linkiesta.
 
Innanzitutto bisogna però ricordare un fattore importante. Quando un paese perde in competitività ci sono due modi per recuperarla. Il primo, che l’Italia ha tante volte utilizzato in passato, è la svalutazione della moneta. Comporta naturalmente conseguenze negative (maggior costo delle importazioni, inflazione), ma ridà fiato alle esportazioni e per questa via fa ripartire la crescita (poi la situazione favorevole dovrebbe essere utilizzata per aggiustare quello che non va e questo spesso non avviene, ma questo è un altro discorso). La svalutazione dunque non è una medicina indolore e le sue conseguenze pesano comunque sui cittadini, ma la “tassa da inflazione” è più difficile da percepire e comunque agisce gradualmente, quindi non provoca sollevazioni.
 
Ma cosa si fa se non si può svalutare la moneta, come nel caso dei paesi in difficoltà dell’area euro? Si segue la seconda strada, che consiste nello “svalutare” le variabili interne. E’ quello che abbiamo visto fare in Grecia (e anche altrove): taglio dei salari, delle pensioni, dei dipendenti pubblici e quant’altro. E questa è una strada dolorosa, perché si incide sulla carne viva dei cittadini, si peggiorano drammaticamente e bruscamente le loro condizioni di vita. Però, affermava la teoria, con questa cura l’economia torna competitiva e quindi il paese guarisce. E si citavano in proposito i casi della Danimarca nella prima metà degli anni ’80 e dell’Irlanda nella seconda metà. Si dimenticava un dettaglio: all’epoca non c’era l’euro, e questi paesi avevano sì varato pesanti misure di austerità, ma avevano anche attuato consistenti svalutazioni delle loro monete. Inoltre la congiuntura internazionale non era, come ora, in preda ad una crisi globale, e questo aveva reso possibile una buona ripresa dell’export.
 
Il documento della Troika prende atto di questa situazione, anche se decisamente in ritardo: molti economisti queste cose le avevano dette subito, appena era stata decisa – essenzialmente da Frau Merkel – la ricetta di durissimi sacrifici da imporre alla Grecia per farle pagare la finanza allegra e i trucchi di bilancio degli anni passati. La punizione, però, riducendo i redditi genera recessione, la quale fa diminuire le entrate: così il saldo di bilancio peggiora lo stesso e rende necessari altri tagli, che però peggiorano la recessione… e così via fino al default. La teoria secondo cui il taglio delle spese permetterà di ridurre le imposte, e l’aspettativa che questo avvenga stimolerà gli investimenti e anche i consumi, si è rivelata per quel che è: un’illusione. Se la gente ha meno soldi spende di meno, e le imprese non investono quando la prospettiva è di consumi in calo.
 
La via che è stata costretta a prendere l’Italia – e che la Germania vorrebbe che applicassero tutti i paesi i cui conti pubblici sono stati appesantiti dalla crisi – è la stessa che ha funzionato così bene in Grecia. Certo, l’Italia è un’altra cosa, ha un’economia che è circa il sestuplo, un settore manifatturiero ancora molto forte nonostante gli anni del declino, una ricchezza privata ai vertici mondiali. Basta? Per sopravvivere probabilmente sì, ma per crescere no di certo, anche perché l’Europa, dove va la maggior parte delle nostre esportazioni, è ferma, e persino i paesi che crescevano a due cifre come Cina e Brasile cominciano a battere in testa. Bisognerebbe stimolare la domanda interna, ma stiamo facendo appunto il contrario.
 
Che fare? Molti autorevoli economisti hanno avanzato varie ricette. Secondo Simon Johnson, ex capo economista dell’Fmi, bisognerebbe svalutare l’euro. Per Nouriel Roubini, diventato famoso per aver previsto la crisi con notevole precisione, dovremmo prendere la strada del default controllato. Un foltissimo gruppo di economisti italiani ha diffuso un appello (tra i primi firmatari De Cecco, Lunghini, Artoni, Bosi, Cesaratto, Stirati) contro i tagli generalizzati ai bilanci e sollecitando l’intervento della Bce in difesa dei debiti sovrani. Hanno ragione, ma l’aria che tira non è quella di dar loro ascolto.
 
E se uscissimo dall’euro? Riguadagneremmo la libertà di gestire la moneta, ma la pagheremmo cara. Molte grandi banche e istituti di analisi hanno studiato questo scenario, e le conclusioni sono tutte simili: per la nostra economia sarebbe un disastro.
 
Insomma, siamo in trappola. Alla guida dell’Europa c’è di fatto Frau Merkel, che si è già abbondantemente dimostrata impari al compito. Nessuno al momento sembra in grado di contrastarla. Se qualcosa non cambia, prepariamoci a un lunghissimo inverno.

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