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 Politica Riduci

Come mai, come mai...
L’esito che si profila dai colloqui sul mercato del lavoro è tale da rendere lecito porsi il problema se il Pd non debba mettere in questione il sostegno al governo Monti. “Colloqui”, non “negoziato”, visto che in un negoziato ognuno cede su qualcosa e ottiene in cambio qualcosa, mentre qui si chiede di cedere molto senza contropartite

(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 17 marzo 2012)

L’esito che si profila dai colloqui sul mercato del lavoro è tale da rendere lecito porsi il problema se il Pd non debba mettere in questione il sostegno al governo Monti. La definizione di “colloqui” piuttosto che “negoziato” sembra più appropriata, visto che in un negoziato ognuna delle parti cede su qualcosa e ottiene in cambio qualcosa, mentre qui si chiede ai sindacati di cedere molto senza ottenere nulla in contropartita. I buoni propositi (“disboscare la giungla dei contratti atipici”, “il lavoro precario deve costare di più”, “gli ammortizzatori devono essere per tutti”, e così via) si vanno sciogliendo al sole della primavera, e ne rimarrà forse qualche piccolo miglioramento, senza influenza nel quadro generale, che sarà sbandierato come svolta epocale. Intanto riprende forza il proposito di ridurre a un simulacro l’articolo 18. Su tutto aleggia l’ultimatum di fatto del presidente del Consiglio, che ha dato a tutti “i sette giorni”, uno in meno del preavviso stabilito per licenziare le collaboratrici domestiche.
 
Nonostante l’urgenza di chiudere a spron battuto, peraltro, il governo non ha ancora chiarito quali e quante risorse intende impegnare al servizio dei nuovi ammortizzatori, come se questo fosse un dettaglio secondario o – nell’interpretazione sfuggita al ministro Fornero – un premio di consolazione se si sarà rinunciato a una serie di diritti e di protezioni. A tutto questo si accompagna un battage propagandistico i cui toni farebbero impallidire i burocrati del “ministero della Verità” di George Orwell. Si dice che la riforma è a vantaggio dei giovani e per i giovani non c’è nulla. Che si vogliono generalizzare e rafforzare gli ammortizzatori sociali in cambio della maggiore facilità di licenziamento e invece si riducono quelli che già ci sono. Che la sostanza dell’articolo 18 non viene toccata mentre si punta alla sua sostanziale scomparsa. L’unico vantaggio per i giovani sarà che, con i licenziamenti più facili, saranno assunti – ma sempre in modo precario – al posto dei più anziani mandati via, in modo da poter risparmiare ancora sul costo del lavoro.
 
Davvero il senso di responsabilità del Pd può spingersi fino a sottoscrivere un peggioramento tanto pesante delle condizioni dei lavoratori? Dopo che i provvedimenti presi finora – dalle tasse alle pensioni – hanno pesato più di tutti sulla parte medio-bassa della scala sociale?
 
Il Pd deve fare i conti con un problema esterno e uno interno. Quello esterno è la reazione dei mercati ad una eventuale caduta del governo. E’ molto probabile, anzi praticamente certo, che torneremmo in un attimo ad affacciarci sul baratro nel quale la guida di Berlusconi ci aveva portato. Il coro del “laudatores” di Monti – dalla signora Merkel alla Commissione Ue alla Bce – che ha contribuito negli ultimi tempi a tranquillizzare i mercati nei confronti dell’Italia, si trasformerebbe in un severo tribunale che condannerebbe senza appello l’inaffidabilità dei politici italiani. Inutile nascondersi che questo problema c’è, ed è grosso.
 
Ma c’è anche un problema interno, ed è costituito da quella parte del partito che vuole appoggiare il governo Monti non per senso di responsabilità, ma perché è d’accordo con quello che fa. Inutile chiedersi che cosa ci facciano costoro in un partito che dovrebbe pur sempre essere di sinistra, seppure riformista e moderata. Ci sono, ed hanno notevole udienza da parte dei media più importanti. Non è impossibile che si spingerebbero fino a una scissione.
 
C’è però da considerare anche un altro aspetto della questione. Abbiamo già visto più volte il professor Monti fare delle notevoli marce indietro di fronte a reazioni decise dei vari gruppi di pressione. Segno che il presidente non è così inflessibile, pronto a lasciare la poltrona se le sue ricette non vengono accettate fino in fondo. Il senso di responsabilità rispetto al problema numero uno di cui abbiamo parlato vale anche per lui, e un qualche peso deve averlo anche il desiderio di non interrompere – specie se per un puntiglio su problemi non decisivi – un’esperienza di assoluto rilievo. Monti può fare a meno del consenso delle parti sociali: ai lamenti degli imprenditori e persino a qualche sciopero generale il governo può sopravvivere senza difficoltà. Non può fare a meno, invece, del consenso politico delle forze che dovranno votare in Parlamento i suoi provvedimenti. In altre parole, il pallino è in mano a Pier Luigi Bersani.
 
E’ probabile che se il segretario del Pd, senza sbandierarlo in dichiarazioni pubbliche ma in un colloquio riservato, gli dicesse fermamente che il suo partito non voterebbe un provvedimento con le caratteristiche annunciate, i colloqui tornerebbero ad essere un negoziato e almeno le ipotesi peggiori sarebbero riviste. L’alternativa è che il Pd inghiotta tutto. Ma basterà, il prossimo anno, per chiedere il voto agli elettori, vantare il fatto che si è stata tanto “responsabili”?

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