La domenica della speranza per l’Europa
Il voto per il nuovo presidente francese non è mai stato così importante. Non tanto per la Francia, quanto per l’Europa: una vittoria del socialista Francois Hollande è l’ultima speranza che ci possa essere una svolta nella politica economica suicida imposta dalla Germania e dalle destre
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 21 apr 2012)
Il voto per il nuovo presidente francese non è mai stato così importante. Non tanto per la Francia, quanto per l’Europa: una vittoria del socialista Francois Hollande è l’ultima speranza che ci possa essere una svolta nella politica economica suicida imposta dalla Germania e dalle destre.
Hollande sarà forse, come tutti dicono, un leader un po’ opaco, senza carisma, mediocre oratore. Deve la sua candidatura al suicidio politico di Dominique Strauss-Kahn, che prima di precipitare in quella storiaccia di molestie sessuali era lo sfidante naturale di Nicolas Sarkozy. Ha sempre militato nell’ala moderata del Ps. E però il programma con cui si presenta ha chiari connotati di sinistra. Soprattutto, ha detto a chiare lettere che, se sarà eletto, il suo primo atto sarà di rimettere in discussione il “fiscal compact”, la sciagurata linea politica che vede nell’austerità di bilancio l’unica medicina possibile contro la crisi, senza curarsi del fatto che si sta palesemente aggravando.
Ormai a dirlo non sono più solo gli economisti progressisti, come Jo Stiglitz, Paul Krugman o Nouriel Roubini. Lo affermano con decisione anche autorevolissimi osservatori che certo non possono essere definiti di sinistra, come George Soros o Barry Eichengreen, il più autorevole dei commentatori del Financial Times, Martin Wolf e più o meno tutti i suoi colleghi del quotidiano, come del resto quelli dell’Economist. Il primo ministro australiano Julia Gillard ha dichiarato che guardare il comportamento dell’Europa è “come osservare un disastro ferroviario al rallentatore”. Lo ribadiva qualche giorno fa Marco Onado sul Sole 24 Ore. Insomma, un coro unanime a cui restano estranei solo le istituzioni e i leader europei: quelli, almeno, determinanti nel decidere che cosa fare.
La lettera di Mario Monti, David Cameron e altri dieci leader europei sulla necessità di varare anche misure per la crescita non sembra aver avuto altri effetti che qualche titolo sui giornali del giorno dopo. D’altronde, il Regno Unito di Cameron è fuori dall’euro e con un piede fuori dall’Europa, e il prestigio personale di Monti evidentemente non ha ancora controbilanciato l’assoluta irrilevanza raggiunta dall’Italia nel quindicennio berlusconiano. Però l’iniziativa è stata un segnale che finalmente qualcosa si sta muovendo, visto che l’hanno firmata anche paesi di tradizione ultra-rigorista come l’Olanda e la Finlandia.
Manca la spinta decisiva: che potrebbe venire proprio da Hollande. La Francia è il secondo paese per importanza nell’Unione, uno dei due corni della diarchia che di fatto da oltre un ventennio determina le scelte importanti dell’Europa: quando Germania e Francia decidono che qualcosa si deve fare, si fa. O almeno, così è stato finché Angela Merkel non ha preso decisamente il sopravvento su un Sarkozy le cui occasionali quanto deboli proteste sono miseramente cadute nel vuoto.
Forse anche perché Sarkozy non sosteneva una reale alternativa, che invece Hollande rappresenterebbe. Hollande può mettersi alla testa di uno schieramento le cui istanze, a quel punto, Frau Merkel e i talebani della Commissione non potrebbero più ignorare.
Hollande, si sa, è in testa nei sondaggi ed è dato sicuro vincente al ballottaggio. Ma gli incerti, quelli che decidono il giorno del voto, sono moltissimi, il 35-40%. La pelle dell’orso ancora non si può vendere. Nei prossimi giorni ci sentiamo tutti francesi.