L’Europa in bilico
sulle scelte tedesche
La situazione dell’Eurozona sembra ormai precipitare e un recupero è possibile solo se la Germania accetterà di farsi carico di misure su cui c’è un generale consenso ma che finora ha bloccato. Ma Berlino dalla moneta unica ha ricavato e ricava ancora cospicui vantaggi, quindi dovrebbe accettare anche gli oneri. Anche perché in gioco c’è la sopravvivenza della costruzione europea
(pubblicato su Repubblica.it il 23 maggio 2012)
La situazione dell’Eurozona sembra ormai precipitare. Non è possibile stabilire quando arriverà al punto di non ritorno, ma di certo è pericolosamente vicino. Gli sherpa dell’Eurogruppo parlano di piani in previsione dell’uscita della Grecia dalla moneta unica. Al di là delle dichiarazioni ufficiali dei leader, non sembra diffusa la consapevolezza che quel passo segnerebbe con molte probabilità la fine dell’euro, non per il peso della piccola economia greca, che rappresenta all’incirca un 3% del Pil dei paesi euro, ma per il segnale che darebbe ai mercati sull’inizio della disgregazione: un invito a nozze per il rilancio in grande stile dei movimenti speculativi contro gli altri paesi, una valanga forse impossibile da fermare. Lo ha detto chiaramente Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario, che continua a lanciare allarmi, finora inascoltati, sul rischio dell’”effetto domino”.
Sui provvedimenti che sarebbero necessari c’è ormai un sostanziale accordo di gran parte degli economisti anche di diverso orientamento. I due essenziali sono il varo degli eurobond, ossia la trasformazione dei debiti pubblici dei paesi membri – almeno per una parte rilevante – in debito europeo; e che la Bce diventi “prestatore di ultima istanza” per gli Stati, ossia possa acquistare i titoli pubblici dei paesi sotto attacco sia sul mercato primario (cioè all’emissione) che secondario, in modo da impedire che i loro tassi aumentino troppo vanificando le misure di consolidamento dei bilanci.
Entrambe queste misure sono state finora impedite dall’opposizione dei tedeschi, perché la prima farebbe loro carico della garanzia sui debiti altrui (riducendo di conseguenza il loro merito di credito), e la seconda farebbe aumentare i rischi che possa ripartire l’inflazione, della quale come è noto hanno un sacro terrore ma che, in una situazione di stagnazione (e per vari paesi recessione) come l’attuale, non appare un problema immediato.
Eppure la Germania non può chiamarsi fuori, affermando che spetta ad ogni paese risolvere i problemi che esso stesso si è creato. Non può – non potrebbe, non dovrebbe – perché la moneta unica, se comporta vantaggi, comporta anche oneri. E la Germania dei primi ha usufruito e usufruisce.
La Germania è stata certamente la “prima della classe”. Dopo l’introduzione dell’euro ha ristrutturato la sua industria (lì, al contrario che da noi, i capitalisti investono); con le riforme a più riprese della commissione Hartz ha ridotto le spese del welfare; soprattutto, ha imposto la moderazione salariale, tenendo per molti anni il tasso di disoccupazione sopra la media europea. In questo modo ha messo a segno forti guadagni di competitività, collocandosi così nel Gotha dei grandi esportatori mondiali, insieme alla Cina e addirittura davanti al Giappone. Attenzione, però: l’aumento del suo export è avvenuto soprattutto all’interno dell’area euro, mentre al di fuori ha addirittura perso qualche posizione. Ha cioè sfruttato la sua virtù a scapito dei paesi meno capaci di seguire un analogo sentiero di aumento della competitività.
Ha potuto farlo, però, anche perché c’era l’euro. In passato – e noi italiani lo sappiamo bene – i paesi che perdevano competitività erano costretti, ad un certo punto, a svalutare la loro moneta. Il che, per il paese interessato, non era certo una soluzione ottimale, perché anche quella ha dei costi, ma da una parte impediva l’avvitamento dell’economia, dall’altra riequilibrava gli scambi con l’estero. In altre parole, in uno scenario del genere, la Germania non sarebbe riuscita a mantenere quell’alto livello di esportazioni verso i paesi dell’area.
C’è un altro aspetto almeno altrettanto importante. E’ stata appena diffusa la notizia che la Germania ha collocato 4,5 miliardi di titoli a due anni al fantastico tasso di rendimento dello 0,07%. Fantastico, perché significa che il rendimento reale è negativo, essendo l’inflazione intorno al 3%. In altre parole, gli investitori pagano la Germania perché custodisca i loro soldi, come se affittassero una cassetta di sicurezza. Pagano anche per i titoli a lungo termine, visto che i Bund decennali viaggiano a circa l’1,5%.
Perché accade questo? Perché in una situazione di grande incertezza, come quella attuale, il denaro cerca porti sicuri, e la Germania indubbiamente lo è. Logico quindi che attiri capitali.
Ma se non ci fosse l’euro questo provocherebbe un apprezzamento della valuta, con ovvie conseguenze negative sull’andamento delle esportazioni. Invece c’è l’euro, la stessa moneta che hanno anche gli altri paesi europei in difficoltà, che quindi ne tirano al ribasso la quotazione. E dunque la Germania può beneficiare di un afflusso di capitali – con cui si finanzia a costo sottozero – senza doverne subire contraccolpi.
I tedeschi, dunque, dovrebbero riconoscere che l’euro ha dato loro notevoli vantaggi. Senza sarebbero stati bene lo stesso, perché comunque hanno agito al meglio, ma non così bene come ora; e oggi non trarrebbero vantaggio dalle difficoltà altrui. I motivi per cui devono farsi carico dei problemi dell’Eurozona quendi ci sono, e sono oggettivi. Ma ce n’è anche un altro, che forse è il più importante.
L’euro non è stato solo un’operazione economica. E’ stato anche una fondamentale scelta politica. La più importante da quando, nel dopoguerra, i leader di un’Europa distrutta e in lutto per 55 milioni di morti decisero che mai più sarebbe dovuta accadere una cosa simile e iniziarono il percorso che avrebbe portato alla Comunità europea e poi all’Unione. Questo percorso non è mai stato lineare e ha visto continui stop e brusche accelerazioni. Negli ultimi anni, si potrebbe dire con un paradosso, entrambe le cose insieme. La moneta comune, un’unica banca centrale, cessioni di sovranità fiscale. Ma anche una guida sempre più affidata alle tecnostrutture e meno ad organismi democraticamente eletti, sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria, fino alle ultime fasi del direttorio franco-tedesco e poi solo di Berlino sostenuta dai suoi più stretti alleati.
La Germania vuole ancora l’Europa unita? Se sì, è il momento di dimostrarlo con fatti, perché i rinvii non sono più possibili. Se questi fatti non ci saranno, per l’Europa sarà l’inizio della fine.