Dopo le primarie c’è Napolitano
Secondo tutti i sondaggi il centro sinistra dovrebbe vincere le prossime elezioni e dunque il suo leader dovrebbe guidare il nuovo governo, utilizzando i pochi spazi di manovra – che però ci sono – per correggere la politica disastrosa del “governo tecnico”. Ma il percorso è pieno di ostacoli e anche il Quirinale ha fatto capire chiaramente che preferirebbe un “Monti-bis”
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 29 nov 2012)
Il primo turno delle primarie ci consegna un Pier Luigi Bersani probabile vincitore, e dunque possibile prossimo presidente del Consiglio se, come ad oggi sembra, le elezioni saranno vinte dal centro sinistra. Ma di qui ad allora il terreno è seminato di trappole (che, peraltro, restano tali anche nel caso in cui a vincere il secondo turno fosse Matteo Renzi).
Tralasciamo le molte cose imprevedibili che potrebbero cambiare il quadro attuale: dato che sono imprevedibili, inutile lavorare di fantasia. Alcuni ostacoli, però, sono ben visibili già ora, e su quelli si può tentare qualche riflessione. Per esempio, le intenzioni del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
E’ noto il ruolo giocato dal presidente nella transizione dal berlusconismo. Un ruolo meritorio e determinante, perché ha contribuito in modo decisivo ad evitare che l’Italia, precipitata in un abisso di non credibilità a livello internazionale, finisse nel baratro. Da quell’operazione è nato il cosiddetto “governo tecnico” presieduto da Mario Monti, economista conosciuto e stimato in Europa (e non solo) dopo la sua esperienza di Commissario alla concorrenza. Era un’operazione necessaria perché il Pdl aveva ancora, se non la maggioranza parlamentare visto che la sua disintegrazione era già iniziata, comunque un potere d’interdizione, e quindi era giocoforza coinvolgerlo.
Il governo Monti ha tamponato la situazione, con manovre che hanno pesato e peseranno soprattutto sulle classi medie e medio-basse. E’ stato un fedele esecutore della linea dettata dalle tecnostrutture europee e dalla Germania, non solo e non tanto perché vi era costretto, ma piuttosto per assoluta consonanza con quella linea. Un governo dunque da accettare come un male necessario, ma che ha anche mostrato tutti i suoi limiti, sia dal punto di vista della qualità delle sue manovre e delle sue riforme, sia da quello della strategia economica. Oggi l’Italia non è più nella fase acuta degli attacchi speculativi, soprattutto perché la Bce ha fatto qualche mossa (consentita dalla Germania), a compenso del fatto che si stavano attuando le politiche care a Bruxelles, Berlino e Francoforte. Ma lo spread con la Germania rimane alto e la situazione generale è peggiore di quella di un anno fa. E se Monti continua a ripetere che “si comincia a vedere la luce” e che “il peggio è passato”, non c’è ancora uno straccio di dato economico che sostenga queste rassicurazioni.
Insomma l’”Agenda Monti”, che è poi l’agenda del pensiero mainstream in Europa, propone un percorso sbagliato, un percorso che allungherà in modo insopportabile il periodo della recessione. Può cambiare quell’agenda un governo diverso? Purtroppo non completamente: l’Italia non può imporre all’Europa di cambiare politica, e questo vincola una parte rilevante di quello che si può fare. Ma, appunto, “non completamente”: esisterebbero degli spazi che è possibile sfruttare, per correggere almeno in parte questa politica economica deleteria. E questa, se dovesse vincere, sarebbe la grande scommessa del centro sinistra.
Ma vincerà? Allo stato dei fatti è certo lo schieramento che dovrebbe prendere il maggior numero di voti, e anche con un certo distacco dalle altre forze politiche. Ma potrebbe essere un successo a metà, che non lo mette in grado di governare per mancaza della maggioranza parlamentare. Questo è esattamente l’obiettivo a cui puntano i potenziali sconfitti, il Pdl o quel che diventerà, l’Udc di Casini, probabilmente anche il nuovo partitino di Montezemolo. La sconfitta può essere attenuata se nessuno ottiene una vittoria sufficiente a governare e dunque, sotto la spada di Damocle di una ripresa degli attacchi speculativi, si ripropone un “Monti-bis”. Casini tornerebbe finalmente al governo, Berlusconi conserverebbe un certo potere contrattuale per difendersi dai processi e badare ai suoi affari.
Questo obiettivo richiede però un passaggio indispensabile: il cambiamento delle legge elettorale, mandando in soffitta il “Porcellum” che assegna il 55% dei seggi della Camera alla coalizione che prende più voti, indipendentemente dalla percentuale raggiunta. Al Senato – con i premi su base regionale – la situazione è un po’ più complessa, ma se l’esito delle elezioni fosse in linea con quello previsto dagli attuali sondaggi il centro sinistra arriverebbe alla maggioranza anche lì. L’attuale legge è certamente “una porcata”, come la definì il suo stesso inventore, ma cambiare le regole alla vigilia del voto, quando con quelle attuali è ragionevolmente prevedibile chi sarebbe il vincitore, è una soluzione contraria anche ai principi del Consiglio d’Europa, che si è espresso contro il cambiamento delle regole nel corso dell’anno che precede le elezioni. In sostanza, una mossa che dovrebbe rendere necessaria la formazione di una nuova coalizione allargata con lo sbocco del “Monti bis” che appare come l’opzione che ha in mente il capo dello Stato.
Lo ha fatto capire, indirettamente ma chiaramente, in quasi tutti i suoi interventi. Anche con quello con il quale ha sostenuto la tesi che Monti, essendo senatore a vita, non è candidabile: tesi discutibile, visto il precedente di Giulio Andreotti che presentò una sua lista senza che nessuno trovasse nulla da ridire, ma l’intento era chiaramente quello di conservare a Monti un’immagine “super partes” per cercare di rendere meno paradossale una sua conferma alla guida del governo anche se le elezioni le ha vinte qualcun altro.
Sarebbe difficile contestare che tutto questo rappresenti una forzatura del processo democratico. Tutto sta a vedere fin dove il Quirinale intenda spingersi nel suo interventismo. L’ultima fase berlusconiana aveva oggettivamente creato una situazione di emergenza e rendeva comprensibile un più accentuato ruolo di supplenza del capo dello Stato in un momento di vuoto di potere. Ma in una democrazia l’emergenza non può essere la norma, e soprattutto non può diventare occasione per forzare il suo corretto funzionamento. Tanto più che, in un caso come questo, è in gioco il condizionamento della politica dei prossimi anni. Le elezioni dovranno segnare la fine del governo dei “tecnici” e il ritorno alla normalità democratica.