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 Lavoro Riduci

Precari di Stato, 
una vergogna “all’italiana”
Nella pubblica amministrazione ci sono ben 260.000 dipendenti precari: uno scandalo per un comparto che fornisce servizi previsti dalle leggi e non è soggetto alle oscillazioni del mercato. Ma i precari sono serviti a tutti: ai politici per il clientelismo, ai dirigenti per aggirare i blocchi del turn over, ai sindacati che guidano le rivendicazioni alla stabilizzazione. Tanto il conto alla fine lo pagano sempre i più deboli, cioè loro
 
(pubblicato su Repubblica.it il 5 dic 2012)
 
Che nella pubblica amministrazione ci siano ben 260.000 dipendenti precari è un fulgido esempio di quelle deleterie furbizie che hanno prodotto il modo di dire “all’italiana”, con un significato sconsolatamente dispregiativo che mette insieme l’approssimazione, l’aggiramento delle regole e un modo di reagire ai problemi che non li affronta, ma inventa qualche sistema con cui “ci si arrangia”. Comportamenti rispetto ai quali non ci sono innocenti, né responsabili dell’amministrazione, né politici di ogni schieramento, né sindacati: tutti costoro hanno pensato che si potessero trarre vantaggi da questo “arrangiamento” (e di fatto ne hanno tratti), ma erano vantaggi che avevano dei costi, che – come spesso accade – quasi certamente si scaricheranno ora sulla parte più debole, ossia sui lavoratori che in queste vicende sono rimasti coinvolti.
 
L’avanguardia storica del precariato pubblico è stata la scuola. Da sempre, fin da quando il concetto di “flessibilità del lavoro” nemmeno esisteva e i contratti “atipici” non erano stati inventati, la pubblica istruzione è stata una fucina di precariato e lavoro irregolare con il meccanismo delle supplenze. Per generazioni di neolaureati, specie di discipline umanistiche, è stato questo, se non il canale di ingresso, il primo contatto col mondo del lavoro. Per quasi tutti, alla fine dell’università, il primo atto era appunto di fare domande per le supplenze, sia che si volesse entrare nel mondo della scuola, sia che si volesse semplicemente guadagnare qualcosa in attesa di trovare un altro impiego. E quasi tutti venivano accolti, chi per pochi giorni l’anno, chi per periodi lunghi, se si aveva magari la fortuna che il titolare da sostituire prolungasse la sua assenza. Sempre senza uno straccio di selezione, di test d’ingresso, di verifica del risultato, insomma di adeguatezza della persona al compito. Di fatto senza contratti, senza diritti, con la richiesta di disponibilità totale: la telefonata di chiamata poteva essere alle 8 di mattina per iniziare alle 8,30, e se non ti precipitavi avanti col prossimo della lista, che tanto era sempre lunga.
 
Chi restava in questo meccanismo, per scelta o perché non trovava di meglio, se era sfortunato poteva restare precario fino alle soglie della pensione. Tanti altri hanno usufruito invece di periodiche sanatorie con assunzioni “ope legis” o finti concorsi riservati, in entrambi i casi senza una effettiva verifica dell’adeguatezza al compito. Un modello organizzativo semplicemente inqualificabile.
 
Un modello che ha dilagato nella pubblica amministrazione a partire dagli anni ’80 per un motivo molto semplice: risale ad allora, al governo Spadolini, il primo provvedimento di blocco del turn over, cioè il divieto di sostituire coloro che vanno in pensione. Era iniziata l’esplosione del deficit e del debito pubblico, e quello doveva essere un sistema indolore per ridurre il numero degli impiegati pubbici. Ma in questo numero non si computavano i precari, e dunque, “fatta la legge, trovato l’inganno”.
 
Così, i dirigenti potevano eludere il blocco delle assunzioni; i politici, specie in prossimità delle elezioni, potevano scatenarsi in assunzioni clientelari, dai postini ai forestali calabresi o siciliani, in numero sufficiente a controllare la giungla amazzonica; i sindacati appoggiavano perché erano comunque posti di lavoro, che la grande mammella dell’impiego pubblico, dopo un po’ di manifestazioni e di cortei, avrebbe prima o poi stabilizzato. Più recentemente la piaga si è estesa alla sanità, attraverso il meccanismo delle convenzioni con le cooperative. Un’inchiesta di Report sul caso del Lazio, dove il fenomeno è molto esteso, aveva documentato che nelle convenzioni si stabilivano anche i compensi per i dipendenti, che però ricevevano anche la metà della cifra teoricamente pattuita. Ognuno può divertirsi ad immaginare dove potesse finire la differenza.
 
Nessuno ha mai sollevato il dubbio che sia assurdo il concetto stesso che la pubblica amministrazione possa aver bisogno di precari. Non stiamo parlando di un’azienda soggetta alle oscillazioni della domanda di mercato, che deve far fronte a picchi occasionali di produzione o realizzare progetti temporanei. Stiamo parlando di servizi ai cittadini che di norma sono stabiliti per legge, di una quantità di lavoro prevedibile e programmabile e dunque di un organico che dovrebbe essere quello necessario sulla base di una corretta organizzazione, da assumere con procedure codificate e non in modo casuale.
 
Periodicamente il nodo dei precari arriva al pettine, ma nessuno finora si è mai proposto di scioglierlo in modo definitivo. La classica soluzione è quella di sistemarne ogni volta un po’ (a volte tanti) e trovare qualche escamotage per rinviare il problema di tutti gli altri, ma senza mai proporsi di affrontare il problema alla radice, ossia di impedire che continui a perpatuarsi. Oggi una soluzione facile non c’è, tanto più in tempi di crisi e di tagli: nessuno ha la bacchetta magica per sanare una situazione che va avanti da decenni. Ma è troppo chiedere che si affronti finalmente il problema in modo che non si continui ad alimentare questa sacca di occupazione al di fuori di ogni regola? Sarebbe ora di dire basta alle soluzioni “all’italiana”.

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