Un galeotto solo al comando
Le vicende seguite alla condanna definitiva dovrebbero aver chiarito a chi ancora non lo ammetteva che il Pdl non è una forza politica, ma un gruppo che persegue soltanto gli interessi del suo capo e come tale è non solo inutile ma dannoso per il governo del paese. Resta da vedere se tutti i gruppi in lotta all’interno del Pd si comporteranno di conseguenza
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 5 ago 2013)
La fenomenologia di Berlusconi è ormai piuttosto chiara. Dire che è un mentitore patologico, un malfattore, un imbroglione, non descrive compiutamente la sua personalità, che andrebbe piuttosto definita con la categoria del solipsismo, in base a cui il mondo non è altro che una proiezione dell’io. Dunque le sole leggi valide sono quelle che l’io suggerisce, la sola verità quella che l’io stabilisce e accetta. Per questo Berlusconi può pronunciare le più spudorate menzogne nell’auto-convinzione – soggettiva ma granitica – che siano vere. Per questo pur avendo frodato, corrotto, falsificato, può presentarsi come una vittima innocente, quale soggettivamente si sente: quelle leggi che ha violato non erano “sue”, erano quelle del mondo-altro-da-sé, quindi non valide se con le sue non coincidono.
Tralasciamo di porci la domanda – che sarebbe solo retorica – se sia possibile che una tale personalità rivesta ruoli politici fondamentali. La domanda è invece quale possa essere la fenomenologia di quello schieramento che impropriamente chiamiamo “destra” o “centro-destra”, ma che sta dimostrando da tempo di non avere nulla a che fare con qualsiasi orientamento politico. Intendiamoci, non che al suo interno manchino personalità e posizioni che sono di destra senza dubbio. Ma ciò che caratterizza quello schieramento è solo l’adesione cieca e assoluta agli interessi del leader. Un’adesione di massa paragonabile a quelle suscitate dalle dittature del secolo scorso, che però almeno proponevano l’adesione a una visione del mondo, il sogno di realizzare un’utopia (per quanto distorta potesse essere), mentre qui c’è solo l’adorazione di un miliardario fuorilegge. Più appropriato è forse il paragone con le sette, quelle dove il guru dice che il bianco è nero e gli adepti lo vedono effettivamente nero.
Quando si arriva al punto che politici consumati e docenti universitari si sciolgono in lacrime per le traversie del capo, persino la spiegazione che “lo fanno per interesse” appare insufficiente: certo, per molti sarà così, ma non si può che constatare che siamo di fronte a un preoccupante fenomeno di psicologia di massa. Una massa, però, che negli ultimi anni è drasticamente diminuita, fino a raccogliere, se si considera il numero degli astenuti, appena poco più del 15% degli elettori.
Un 15% che sale al 25 se si considerano solo i voti validi, ma che, almeno finora, ha pesato come se fosse almeno il 50. Perché?
Non c’è un solo motivo, naturalmente. Quello ovvio è che non si è costituita una maggioranza in grado di sostenere un governo. I numeri usciti dalle elezioni la rendevano problematica, l’insensato isolazionismo dei 5 Stelle ne ha sanzionato l’impossibilità, la pazzesca vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica ne ha seppellito anche l’ipotesi.
Alla fine tutto è stato rimesso nelle mani di Giorgio Napolitano, e questo è stato l’ennesimo errore di un Pd ormai in confusione totale. Napolitano aveva già chiarito al di là di ogni dubbio quali fossero le sue intenzioni. Lo aveva chiarito quando si era rifiutato cocciutamente di mandare in Parlamento il leader della coalizione di maggioranza relativa, come sarebbe stato corretto fare anche in assenza di una maggioranza sicura e precostituita. Era perfettamente chiaro a tutti che il presidente voleva a tutti i costi un governo Pd-Scelta civica-Pdl, e offrirgli la rielezione ha costituito un’accettazione preventiva di quell’esito.
Era inevitabile? No: era da evitare. Napolitano ha creduto di interpretare il ruolo di garante dell’unità nazionale, super-partes e preoccupato dei riflessi che la situazione politica avrebbe avuto su quella economica. E invece ha commesso un madornale errore (non il primo e probabilmente – purtroppo – neanche l’ultimo). Non ha capito allora, e forse ancora adesso non capisce, la natura e il ruolo del Pdl e di Berlusconi. Non una forza politica, appunto, ma un gruppo il cui primo e principale scopo è la difesa del capo, alla quale è disposto a sacrificare qualsiasi altro interesse del paese. Quali accordi, quale governo sono possibili con un raggruppamento del genere? Nessuno, se non si è prima disposti a salvare Berlusconi dalle conseguenze delle sue malefatte. Si spera che Napolitano non arrivi a tanto, ma nel frattempo invece di perseguire soluzioni che sterilizzassero quella minoranza deviante ne ha scelta una che le ha attribuito un peso determinante, ben oltre quello conquistato alle urne.
Un regalo che Berlusconi, da tattico geniale qual è, si guarda bene dal dilapidare. Lui e i suoi seguaci minacciano sfracelli, dimissioni di massa, crisi: ma poi non ci pensano nemmeno a far cadere un governo che potrebbe essere la loro ultima occasione di restare in gioco. Un gioco, però, che non è più nello loro mani: possono solo lanciare un bluff dietro l’altro, che possono aver successo solo se gli altri protagonisti si spaventano e non li vanno a vedere.
Ma bisogna anche dire che se Berlusconi è rimasto in gioco è anche perché nel Pd non c’era – e non c’è – nessuna compattezza sulla linea politica da perseguire. Come la vicenda dell’elezione presidenziale ha provato oltre ogni dubbio, non solo il partito è diviso in gruppi di potere, il che nella politica non è una novità e anzi può addirittura essere considerato normale, anche se di una “normalità” non certo apprezzabile. Ma è anche diviso, ancor più profondamente, su quello che dovrebbe essere “il progetto”, cioè su cosa si vorrebbe realizzare e come. Se Matteo Renzi è il più scoperto nel riproporre un blairismo vent’anni dopo, questa linea è più o meno esplicitamente condivisa da una parte non si sa quanto grande – ma certo non piccola – dei dirigenti del partito, sempre più lontani da una base di militanti e di elettori che, in grande maggioranza, attribuisce ancora un significato importante al fatto di definirsi “di sinistra” e comportarsi di conseguenza. I vari gruppi di questo orientamento preferivano le “larghe intese” a qualsiasi altra soluzione che caratterizzasse il Pd più a sinistra.
Questi gruppi potrebbero ancora salvare Berlusconi, o quantomento favorire un allungamento dei tempi del suo allontanamento. Sarebbe l’ennesimo “tradimento”, grave almeno quanto quello dei famosi (ma tuttora ignoti) 101 che hanno affossato Prodi. L’ennesimo gioco allo sfascio della peggior fase politica della storia della Repubblica. Gli elettori di certo non lo dimenticherebbero.