Contro l’austerità
spunta un referendum
Lo propone una nuova formazione politica, i “Viaggiatori in movimento”. Ma si può abrogare così il fiscal compact? I pareri dei giuristi sono discordi, ma c’è chi lo ritiene possibile. Una mossa né contro l’Europa né contro l’euro, dicono i Viaggiatori, che mira solo ad evitare che una politica sbagliata prolunghi la crisi a tempo indeterminato
(pubblicato su Repubblica.it il 12 gen 2014)
Si può proporre un referendum contro la “stupida austerità” senza essere né anti-europeisti né anti-euro? C’è chi pensa che non solo si possa, ma che sia la sola strada proponibile per uscire dalla morsa della crisi che altrimenti, se non cambia l’attuale politica europea, non finirà mai. A sostenerlo è un nuovo movimento politico promosso da un gruppo di intellettuali e che è difficilmente classificabile secondo le categorie politiche tradizionali di “destra”, “sinistra” e “centro”. Il fondatore è Gustavo Piga, un economista di cui si ricorda che tra i primi denunciò i rischi e i pasticci della finanza dei derivati con un saggio del 2001 e che da tempo conduce una battaglia sostenendo che solo un adeguato volume di investimenti pubblici può rilanciare la crescita e ridurre così molto più efficacemente e rapidamente il rapporto debito-Pil.
Ma, appunto, per far questo bisogna eliminare la camicia di forza delle regole europee che ci impongono prima di tutto tagli e che ci hanno fatto inserire addirittura nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio. Secondo Piga questa diversa politica sarebbe possibile anche rispettando il limite del deficit al 3% previsto dal Trattato di Maastricht, ma diventa impraticabile se l’assicella viene spostata in basso verso il pareggio e, soprattutto, con l’entrata in vigore del “fiscal compact”, l’altro accordo che ci impone di ridurre ogni anno il debito del 5% della quota eccedente il 60% del Pil. Oggi siamo oltre il 130%, e dunque la correzione dovrebbe essere di circa 3,5 punti di Pil, equivalenti a una cinquantina di miliardi. Cinquanta miliardi di ulteriori tagli e tasse impedirebbero qualsiasi ripresa dell’economia, alimentando la spirale perversa recessione-disoccupazione-aumento del debito in rapporto a un Pil che non riuscirebbe più a crescere.
E dunque questa nuova formazione politica, dal nome un po’ improbabile di “Viaggiatori in movimento”, ha pensato di proporre un referendum popolare per abrogare il “fiscal compact” e riconquistare così quel minimo di libertà di manovra sui conti pubblici che ci permetterebbe di attuare una politica di rilancio. Ma è praticabile questa strada? I Viaggiatori ne hanno discusso in un convegno venerdì 10, presieduto da Paolo De Ioanna (consigliere di Stato e membro del movimento, già capo di gabinetto al Tesoro con Ciampi) a cui hanno partecipato vari giuristi (Giacinto Della Cananea, Nicola Lupo, Giulio Salerno) per dare una risposta a questa domanda. E la risposta di quasi tutti è stata negativa: il fiscal compact è un trattato internazionale, e dunque la legge italiana che lo recepisce (la 243 del 2012) non può essere sottoposta a referendum, che sarebbe sicuramente dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale.
Secondo Giulio Salerno, invece, la strada c’è: il fiscal compact ha un diverso valore giuridico rispetto ai trattati europei, perché non è stato firmato da tutti i membri dell’Unione, e quindi dovrebbe piuttosto considerarsi un accordo intergovernativo. Una scelta accurata delle frasi all’interno della 243 di cui proporre l’abrogazione potrebbe passare il vaglio della Corte. Del resto, si è detto, quasi mai la lettera dei quesiti referendari corrisponde esattamente all’obiettivo politico che si vuole raggiungere: è stato quasi sempre così, per esempio con i referendum sul nucleare, sul finanziamento pubblico dei partiti, sull’acqua. Ma dall’esito emerge la volontà politica della maggioranza dei cittadini che poi, come la stessa Corte costituzionale ha chiarito, non può essere disattesa. E dunque anche questo può essere uno strumento valido per ottenere un verdetto pro o contro la politica dell’austerità.
Non tutti gli interventi del pubblico erano d’accordo. Non lo era ad esempio Bruno Tabacci, secondo cui sono assai più gravi i nostri problemi interni, come l’evasione e il sommerso, che “è come se ci sottraessero un Pil ogni 4 anni”. Né l’economista Veronica De Romanis, ammiratrice di Angela Merkel (sulla quale ha scritto un libro; e moglie di Lorenzo Bini Smaghi, già nel board della Bce). Il fiscal compact, ha detto, non avrà le conseguenze drammatiche che si paventano: non dimentichiamo che il pareggio di bilancio dev’essere corretto per il ciclo economico, e questo produrrà margini tali che il complesso delle risorse da reperire sarà molto minore dei 50 miliardi di cui si dice. Si può però osservare che i criteri da usare per questa “correzione” sono molto vaghi e lasciano ampio spazio ad essere interpretati in modo politico. Questo significa che quei numeri saranno tutt’altro che “oggettivi” e dipenderanno in buona misura dalla nostra capacità di contrattazione.
E qual è la nostra capacità di contrattazione? Più che scarsa inesistente, a sentire la testimonianza di Laura Segni, già “sherpa” per il ministero dell’Economia nelle trattative di Bruxelles e ora passata al settore privato. L’Italia maltrattata, spesso addirittura sbeffeggiata, non solo dalla “grande” Germania, ma anche dalle “pulci” come Finlandia e Olanda, tra i nostri critici più feroci. I tecnici lasciati soli dalla politica, che non prepara le trattative, non dà indicazioni sulla linea, arriva addirittura a sprecare, nelle successive riunioni dei Consigli europei, qualcuno dei risultati faticosamente ottenuti al tavolo dei tecnici. Certo, la Segni si riferiva al periodo berlusconiano, ma l’immagine del paese disordinato, inattendibile e confusionario, una volta acquisita, resta incollata addosso ed è molto difficile da cancellare. Per di più, mentre i paesi nordici si muovono compatti, quelli mediterranei non sono mai stati capaci di presentarsi con una linea comune. In queste condizioni, cosa mai saremo in grado di contrattare?
Anche Giorgio La Malfa si è detto di questo parere: “La Germania non ci starà mai a sentire se non abbiamo qualche arma di pressione”. E se qualcuno ha affermato che un referendum di questo tipo sarebbe percepito come una mossa anti-euro, Piga ha riaffermato che non è così e che l’uscita dall’euro non ci conviene: “Saremmo costretti, subito dopo, a varare una pesantissima manovra come quella di Amato nel ’92 per non perdere la fiducia dei mercati, col risultato di non poter combattere lo stesso la recessione”.
I Viaggiatori, quindi, proseguiranno sulla strada del referendum. Che sia o no la migliore possibile, una cosa è certa: dalla trappola della crisi non usciremo senza trovare un’alternativa alla strada che la Germania e le tecnocrazie europee hanno scelto per noi. E finché il governo e il suo “azionista di maggioranza”, il Pd, non si comporteranno di conseguenza, il futuro resta buio.