Vendere Enav è come
aumentare le tasse
Fare entrare i privati nei servizi pubblici essenziali significa rinunciare a fornirli al minor costo possibile, perché ai costi di gestione si devono aggiungere i profitti. Inoltre si genera un conflitto d’interesse con gli utenti.Sostenere che la presenza dei privati comporta sempre più efficienza è una posizione ideologica
(pubblicato su Repubblica.it il 5 feb 2014)
Signori, si vende. Adesso, ha annunciato il governo, è il turno di quote delle Poste e dell’Enav, l’ente che gestisce la sicurezza dei voli, e poi di Eni, Fincantieri, eccetera. Non si può propriamente parlare di privatizzazioni, dato che il controllo dovrebbe restare in mano pubblica, ma è un massiccio ridimensionamento dello Stato imprenditore, che sembra voler coinvolgere tutto ciò che è rimasto dopo le grandi vendite (ma in molti casi svendite) iniziate dopo la crisi del ’92.
E’ una buona idea? Chi dovesse dare una risposta univoca, un sì o un no senza distinzioni, si iscriverebbe a buon diritto a uno dei due partiti – “statalisti” e “mercatisti” – prigionieri delle rispettive ideologie, che, entrambe, hanno subito dalla storia più d’una cocente sconfitta. Il problema andrebbe affrontato con sano pragmatismo: lo Stato non è sempre meglio del mercato e viceversa: dipende da che cosa si deve fare e, a volte, anche dal contesto storico in cui ci si trova ad operare.
Quando però si parla di servizi essenziali, quelli a cui non si può evitare di ricorrere, la bilancia pende dalla parte dello Stato. Prendiamo per esempio l’Enav. Il suo compito è garantire la gestione e il controllo del traffico aereo civile. Come ha spiegato su Affari & Finanza Luca Pagni, l’attuale capo-azienda Massimo Garbini ha fatto pulizia di un passato macchiato da conti in disordine e inchieste giudiziarie e l’ha rilanciato facendone uno dei leader del settore a livello internazionale. Una prova, per chi avesse dimenticato i grandi esempi del passato (ma anche oggi non l’unica), che una società pubblica non è necessariamente un carrozzone clientelare e può svolgere con efficienza il proprio compito.
E dunque, perché vendere ai privati fino al 49% dell’Enav? Per fare cassa e ridurre il debito pubblico? Beh, l’Enav è valutato dal mercato poco più di un miliardo. Se se ne vende a un buon prezzo il 40% diciamo pure che se ne può ricavare mezzo miliardo: una cifra che ridurrebbe il debito pubblico – che ha superato i 2.000 miliardi – dello 0,025%. Dunque il motivo non può essere questo.
Ma, si dirà, si vendono anche altre cose, e quel mezzo miliardo si aggiunge al resto. Certo, ma, come si è obiettato per le quote in vendita delle altre società, così facendo lo Stato rinuncia ad incassare i futuri dividendi su quelle azioni, e dunque l’operazione può essere conveniente solo se il risparmio di interessi sul debito è superiore ai dividendi che sarebbero stati acquisiti. E quanto dà l’Enav di dividendo? Per ora poco, circa il 2% (che, sia detto per inciso, non è poi così misero per una Spa); ma si prevede che arrivi al 7-8% nei prossimi cinque anni. Se è così, bisogna dire che si tratta di un record mondiale: solo in casi eccezionali le società distribuiscono così tanto. Una delle rare eccezioni è stata per molti anni Telecom Italia, ma perché era costretta a ripagare chi l’aveva scalata a debito, e questo è forse il principale motivo che ne ha stroncato lo sviluppo e l’ha ridotta da protagonista mondiale della telefonia, anche sul piano tecnologico, al ruolo di preda da spolpare che ha ora. Ma questo è un altro discorso. E dunque, perché Enav dovrebbe distribuire un dividendo così alto? La risposta può essere solo che deve essere appetibile per gli investitori, pur non essendo la sua proprietà contendibile visto che la maggioranza resterebbe in mano pubbliche.
Ma valutare solo il lato puramente finanziario del problema sarebbe riduttivo. Perché, come abbiamo visto, l’Enav svolge un servizio pubblico indispensabile. Se è tanto brava da guadagnare tutti quei soldi, non dovrebbe distribuirli in dividendi, né ai privati che dovessero acquistarne una parte, né allo Stato se dovesse rimanere completamente pubblica. Quei soldi dovrebbero essere usati per diminuire le tariffe che l’Enav pratica ai suoi utenti, le società del traffico aereo. Finora, per esempio, lo ha fatto: come si dice nel suo sito, “riduce le tariffe di assistenza al volo sulle operazioni di aeroporto anche per il 2014 (…) del 27,4 per cento sulla prima fascia, del 20,6 per cento sulla seconda fascia e dell'8,8 per cento sulla terza”. Perché è la cosa più corretta da fare? Perché un servizio pubblico deve costare il meno possibile, il che fa aumentare la competitività del paese. Se invece quei soldi vengono destinati a dividendi, noi utenti pagheremo di più i viaggi aerei, perché chi paga quelle tariffe poi trasferisce la spesa ai suoi clienti. E se invece i dividendi vanno allo Stato, si tratta di una sorta di tassa anomala, perché non dichiarata.
Ora, se i privati spendono per acquistare azioni di una società non lo fanno certo per beneficenza, ma con lo scopo di guadagnarci il più possibile. Se fossero già stati nell’Enav sarebbero state decise riduzioni tariffarie di quella portata? C’è quantomeno da dubitarne.
Naturalmente questo ragionamento non vale solo per l’Enav, ma per tutte le aziende, pubbliche o semi-pubbliche, che gestiscono servizi indispensabili, come ad esempio le municipalizzate. Privatizzarle o farci entrare i privati crea un conflitto di interesse con gli utenti, che non possono evitare di servirsene, ma pagano, oltre al costo vivo del servizio, anche il di più che serve a remunerare gli azionisti. Un di più che non di rado è arbitrario: sarebbe compito delle varie authority di controllo far sì che non avvenga, ma le authority non sempre hanno le capacità (e qualche volta la volontà) per riuscirci: anche questo lo abbiamo verificato in questi ultimi anni.
L’ingresso dei privati, fortemente sollecitato anche dall’Unione europea, risponde all’ideologia “mercatista”, secondo cui il privato è sempre più efficiente del pubblico. Ma, si obietterà, l’Italia è piena di municipalizzate altamente inefficienti, usate per assumere amici e parenti dei politici di turno, per sistemare in posti ben remunerati i trombati alle elezioni, per fare traffici illeciti con gli appalti. Vero, verissimo. Ma: 1) abbiamo altrettante prove che la presenza dei privati non è affatto una garanzia che questo non succeda. Possiamo citare l’Acea come esempio macroscopico, ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo; 2) Se si accetta che il principio è corretto, ossia che i servizi pubblici indispensabili dovrebbero essere garantiti al minor costo possibile (il che implica una gestione pubblica che deve solo coprire i costi senza dare profitti), allora gli sforzi debbono dirigersi a far funzionare la gestione pubblica, il che è possibile, come numerosi esempi dimostrano. Certo, per seguire questa strada bisognerebbe che prevalesse le volontà di fare l’interesse pubblico, invece che quella di fare buoni affari. E questa è di certo la cosa più difficile da ottenere.