Salario minimo,
l’ultima spallata al sindacato
Sarebbe una misura opportuna per tutti i lavoratori atipici, ma il progetto annunciato dal vice ministro Morando ne fa un grimaldello per scardinare definitivamente il contratto nazionale, cosa che avrebbe come conseguenza un rapido deperimento dei sindacati. Carniti: le organizzazioni della società civile sono fondamentali per la democrazia
(pubblicato su Repubblica.it il 17 apr14)
L’introduzione per legge di un salario minimo non ha certo l’apparenza di una misura reazionaria. Esiste nella maggior parte dei paesi e in Germania, per esempio, è stata una delle condizioni dei socialdemocratici della Spd per aderire alla Grande coalizione con la Cdu di Angela Merkel e i cristiano-democratici bavaresi della Csu.
In Italia, poi, sarebbe un provvedimento opportuno. La frammentazione del mercato del lavoro in mille diverse figure e tipologie contrattuali ha reso sempre più problematica l’organizzazione sindacale, e lavoratori atipici e precari si trovano in stragrande maggioranza soli davanti ai datori di lavoro, e dunque in posizione di grande debolezza. Un salario minimo fissato per legge darebbe loro una garanzia di base, e costituirebbe un disincentivo allo sfruttamento selvaggio in quanto il diritto potrebbe essere fatto valere anche dopo una eventuale cessazione del rapporto di lavoro.
Il problema è da tempo discusso anche all’interno dei sindacati, dove non mancano posizioni favorevoli a questa ipotesi. Finora, però, ha prevalso piuttosto nettamente la linea di chi è contrario. I timori sono essenzialmente due: che si finirebbero per schiacciare le retribuzioni sul minimo legale e che si svuoterebbe di significato la contrattazione, indebolendo irreparabilmente il ruolo dei sindacati. Ma i progetti del governo vanno ben oltre questi timori e, se saranno realizzati, porteranno a compimento la linea seguita con pervicacia da Maurizio Sacconi quanto era ministro del Lavoro: spezzettare i sindacati e renderli politicamente irrilevanti, in modo da portarli a scomparire o quasi.
La chiave di volta di questa strategia è quella enunciata dal vice ministro dell’Economia Enrico Morando, noto da tempo per incarnare l’anima più liberista del Pd, nell’intervista a Repubblica: “Il sistema che intendiamo rinnovare si basa sull'idea che per uscire dal contratto nazionale le aziende debbano sottoscrivere con i sindacati un loro contratto aziendale, come sta accadendo, ad esempio, alla Fiat”. Il contratto aziendale, dunque, non più, come ora, integrativo di quello nazionale, ma sostitutivo.
Ora, chiunque abbia un minimo di consuetudine con le problematiche sindacali sa bene che è la contrattazione nazionale, dove si decidono i principi basilari dei rapporti tra lavoro e imprese, che rende il sindacato un soggetto politico rilevante. Se cade quello, o viene limitato ai lavoratori delle piccole aziende, i sindacati confederali sono irreparabilmente destinati a un rapido declino, a non contare più nulla: e chi si iscriverà più a un’organizzazione che non conta niente? Entreranno così in una spirale negativa e finiranno con ogni probabilità come negli Usa, dove ormai appartiene a un sindacato solo il 7% dei lavoratori privati.
Esiste una diffusa convinzione, da cui non è immune una parte non piccola dell’area di sinistra, che questo non solo non sarebbe un gran male, ma è addirittura opportuno. Da tempo i sindacati vengono tacciati di conservatorismo, di non capire che i tempi sono cambiati, di ostacolare uno dei grandi totem che, secondo l’ideologia dominante, è decisivo perché un’economia possa competere con successo: la flessibilità del lavoro (e – ma questo non si dice altrettanto esplicitamente – la flessibilità del salario). A poco valgono studi e ricerche, ormai numerosissimi, che affermano invece che un’eccessiva libertà nel disporre della forza lavoro è dannosa anche per le imprese, che spingono solo su quel fattore di costo a scapito dell’innovazione. E che una distribuzione del reddito squilibrata a danno delle classi con meno potere fa male all’economia nel suo insieme, che prospera se i consumi sono di massa, mentre la concentrazione della ricchezza alimenta piuttosto la finanziarizzazione con il suo seguito di bolle speculative e instabilità. E ancora: Pierre Carniti, (anch’egli contrario all’introduzione del salario minimo legale per i motivi più sopra ricordati), cita il grande politologo Robert Dahl per sostenere che il “pluralismo sociale organizzato” (cioè le organizzazioni che nascono nella società civile, come sono appunto i sindacati, ma anche le organizzazioni padronali come la Confindustria, che corre oggi rischi analoghi) sono un “fondamento sostanziale” della stessa democrazia.
I sindacati, specie per come sono oggi, sono tutt’altro che perfetti e si possono muovere loro una quantità di critiche in buona parte meritate. Ma bisognerebbe saper distinguere i fattori contingenti da quelli strutturali: anche il sistema politico negli ultimi anni ha dato pessime prove, ma per fortuna non c’è ancora nessuno che invochi esplicitamente il passaggio alla dittatura (anche se il tentativo strisciante è quello di instaurare una sorta di “dittatura dei tecnici”).
L’introduzione del salario minimo nella versione descritta da Morando avrebbe dunque effetti distruttivi, come il famigerato articolo 8 della legge 148, quello che consente agli accordi raggiunti in sede aziendale o territoriale di derogare non solo al contratto nazionale, ma, incredibilmente, persino alle leggi dello Stato. Non a caso questa disposizione è stata “sterilizzata” dall’accordo Confindustria-sindacati dello scorso anno, con l’impegno a non utilizzarla.
Quella forma di salario minimo legale non è l’unica possibile, e molti sono convinti che, se introdotto in un modo non nocivo per le organizzazioni della società civile, si tratterebbe di un provvedimento opportuno. Ben diverso sarebbe, per esempio, applicarlo solo ai lavoratori non coperti da un contratto nazionale, e contrattandolo magari con le organizzazioni sindacali. Naturalmente mantenendo la contrattazione di secondo grado (aziendale o territoriale) all’interno dei contratti nazionali e impedendo che questi possano essere facilmente derogati, se non semmai in casi eccezionali la cui casistica andrebbe prefissata.
Alla base dello scontro non c’è dunque solo una misura tecnica, ma due concezioni molto diverse del funzionamento della democrazia e della società. La prima è quella che ha informato un secolo, quello appena finito, che ha visto uno sviluppo del benessere come mai era accaduto prima nella storia. La seconda è quella che ha cominciato a prevalere negli anni ’80 e che ha avuto come conseguenze una disuguaglianza sempre maggiore nella distribuzione del reddito e il susseguirsi di crisi economiche tra cui quella in cui siamo ancora immersi, la più drammatica. Sarebbe davvero un triste paradosso se a perseverare su questa linea fosse un governo guidato da quell’area che ancora si definisce progressista.