Se Renzi mira in alto
Il trionfo ottenuto alle elezioni, che non ha uguali in Europa oltre che nella nostra storia, dovrebbe essere speso per riguadagnare all’Italia un ruolo da tempo scaduto nell’irrilevanza, tanto più che il disastro subito da Hollande priva la Merkel del tradizionale interlocutore privilegiato. L’obiettivo strategico è cambiare la logica dei trattati, basati su teorie economiche smentite dalla storia
(pubblicato su Repubblica.it il 27 mag 2014)
Nell’area progressista non tutti (per usare un eufemismo) apprezzano le idee di Matteo Renzi, forse persino tra quelli che lo hanno votato. Ma dopo una vittoria così clamorosa, e così chiaramente personale, pur senza correre in soccorso del vincitore non avrebbe molto senso voltare sdegnosamente la testa e ritirarsi in una capanna aspettando una nuova svolta politica che non promette di arrivare a breve. Invece, è più utile riflettere su come potrebbe essere utilizzato questo trionfo per finalità che magari non saranno caratterizzate come “di sinistra”, ma non per questo sarebbero di minore importanza.
Dopo questo esito elettorale Renzi ha una posizione fortissima in patria, ma l’Italia non conta nulla in Europa. Il ventennio Berlusconiano ha dato il colpo di grazia alla nostra storica incapacità di farci valere nell’Unione, per trascuratezza, impreparazione, negligenza, improntitudine. Nonostante che non ci sia mancato negli anni personale tecnico di valore, capace di difendere gli interessi italiani nei processi decisionali europei, ci sono numerose testimonianze di come quasi sempre quello che costoro riuscivano faticosamente a conquistare nelle riunioni preparatorie venisse poi vanificato nel momento delle riunioni politiche decisionali, dove i nostri rappresentanti – ministri o capi del governo – tradizionalmente arrivano impreparati, perché molto spesso neanche guardano i dossier preparati dai loro sherpa, cosa di cui approfittano gli agguerriti colleghi degli altri paesi per far virare le conclusioni secondo le loro convenienze.
Specialmente ora che l’Italia si appresta ad assumere la presidenza di turno dell’Unione, Renzi dovrebbe focalizzare l’attenzione su questo aspetto, sulla cui importanza è inutile dilungarsi, per dare soprattutto qui una “svolta buona”.
Questa è però solo una premessa tecnica, sia pure di importanza decisiva. Ma non meno rilevante è l’aspetto politico.
L’esito di queste elezioni ha fortemente indebolito tutti i governi, con l’eccezione di quello tedesco, dove la Grande coalizione ha sostanzialmente confermato i risultati delle recenti elezioni politiche, e la super-eccezione italiana, dove il partito al governo, pur senza mettere davvero in discussione la linea europea dell’austerità e men che meno la scelta europeista del paese, ha ottenuto un trionfo senza nemmeno un lontano paragone né con gli altri paesi, né con la storia del nostro. L’interlocutore storico della Germania, ossia la Francia, è in una situazione diametralmente opposta: chi ha vinto è impresentabile, e il presidente in carica ha subìto una batosta senza precedenti. L’altro paese forte dell’Unione, la Gran Bretagna, è ormai più fuori che dentro.
Tutto questo fa sì che Renzi abbia una concreta possibilità di recuperare all’Italia uno status che forse non ha mai avuto e che, come si diceva, negli ultimi anni è sceso all’irrilevanza più totale. Ovviamente non andando a uno scontro con la Merkel, che sarebbe comunque perdente. Ma anche la cancelliera, che è un grande animale politico, ha certo già capito che molto deve cambiare, perché questo non è stato un campanello d’allarme, ma una fortissima sirena, e c’è il rischio concreto che quanto è stato costruito in sessant’anni possa crollare come un castello di carte. Renzi è nella situazione di proporsi come il nuovo partner che accompagni questo cambiamento (anche senza escludere la Francia): compito certamente molto difficile, ma le vicende degli ultimi mesi dimostrano che al segretario del Pd le capacità non mancano.
Ma quale può essere la posta? Renzi ha accennato alla possibilità di “un'operazione keynesiana straordinaria in cinque anni: più di 150 miliardi di euro”. Sarebbe certamente un passo importante, così come servirebbero le altre proposte di cui si parla, come l’esclusione di alcuni tipi di investimenti dal conteggio del deficit, o magari gli euro-bond. Ma una posta ancora più alta, e quella davvero fondamentale, sarebbe di avviare una revisione dei trattati, da Maastricht in poi. Perché è lì, soprattutto, che serve un “cambio di verso”.
Tutta la costruzione europea, dalla regole di finanza pubblica al compito (e ai limiti) della Banca centrale, è stata fatta in base a un’ideologia ben definita, un’ideologia che vede la politica come un qualcosa che non deve interferire con l’economia, ma deve servire ad adattare la società alle leggi di quest’ultima. Di qui una banca centrale con un solo obiettivo, la stabilità dei prezzi, e priva di strumenti di intervento che tutte le altre hanno; di qui le varie regole, fisse e sempre più stringenti, sul deficit e il debito pubblico e poi sul pareggio di bilancio. Una ragnatela di norme il cui scopo evidente è di imbrigliare la politica economica, togliendo ogni spazio di manovra all’azione dei governi. E questo in base alla teoria che gli interventi dei politici possono solo far danni, ostacolare l’azione intrinsecamente razionale di quella “mano invisibile” che, al di là di ogni dubbio, sa come impiegare le risorse nel modo migliore e più efficiente. Di una sola cosa devono occuparsi i governi, aumentare il più possibile la concorrenza: il resto verrà da solo. Di qui il potere dei tecnici, la venerazione per i tecnici al governo, la dittatura delle formule anche quando producono risultati paradossali.
Ma quelle leggi dell’economia non sono state date agli uomini sul monte Sinai, sono il prodotto di teorie che in una determinata fase storica sono diventate egemoni. E che un’altra fase storica, quella iniziata con l’esplosione della crisi, si è incaricata di smentire per larga parte. Eppure per l’Europa sembra che nulla sia accaduto, perché ancora oggi la sua classe dominante non dà alcun segno di volerle mettere in discussione.
Renzi, in Italia, si è comportato diversamente. La vicenda degli 80 euro è significativa al riguardo. Il capo del governo ha deciso, non importa discutere qui per quali ragioni, che era opportuno distribuire una certa quantità di miliardi ai cittadini. Avesse dato retta ai tecnici, non avrebbe mai potuto farlo. Invece ha fatto una cosa che non si faceva da tempo: ha riaffermato il primato della politica. Io, la politica, decido che cosa fare; voi, i tecnici, trovate il modo di farlo. E così è andata.
Ora, è chiaro che in questo modo ci si espone ai rischi di una deriva populista, che può trasformarsi in un disastro economico come stava accadendo con Berlusconi e come tante volte è accaduto in varie parti del mondo. Ma quello è un rischio insito in qualsiasi sistema democratico. Se non si vuole correrlo, è il sistema democratico che finisce con il deperire. Ma non è che l’alternativa che fino ad oggi è stata scelta metta al riparo da quest’ultimo pericolo: l’avanzata in tutta Europa dei partiti anti-sistema è un segnale preciso che la corda è molto tesa, e non si sa quanto ancora possa durare prima di spezzarsi.
A Bruxelles o a Berlino non bisogna andare a “battere i pugni sul tavolo”: non è così che si fa politica, a meno di non essere i più farti, e non è questo il caso. Ma bisognerebbe andarci non avendo in tasca solo un programma per alleviare la crisi, ma anche una strategia per correggere delle linee di fondo che, se davvero si vuole che l’Europa abbia un futuro, bisogna al più presto cominciare a ripensare.