Se Renzi ascoltasse i gufi
Mentre si procede con riforme che stravolgeranno il nostro assetto istituzionale, la situazione del paese non potrebbe essere più allarmante, ma chi lo afferma viene tacciato di essere un “gufo”. La crescita prevista è già azzerata e non arriverà con queste politiche. Non resta che un’alternativa
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 19 lug 2014)
La performance veneziana in inglese di Matteo Renzi (qui uno dei numerosissimi video diffusi sul web) è una perfetta rappresentazione della sua personalità e del suo modo di governare: l’importante è andare avanti velocemente, poco importa se si sbaglia. Ma c’è una differenza tra una conferenza e una riforma della Costituzione o del lavoro. Una pronuncia fantasiosa e qualche parola inventata possono provocare qualche presa in giro, ma poi il vento se le porta via. Una riforma mal fatta, invece, rimane e può provocare danni pesantissimi, cambiare in peggio la vita delle persone, deteriorare gli equilibri della democrazia.
Che questo accada è ormai ben più di un rischio, tanto sul piano istituzionale che su quello dell’economia. Quanto al primo aspetto, le pasticciate riforme affastellate in questi mesi, pur se con qualche difficoltà, stanno andando avanti grazie alla “lealtà” di Berlusconi e all’allineamento al capo della maggioranza del Pd, e sembra difficile che la pattuglia che nel partito resiste su posizioni critiche possa riuscire ad ottenere cambiamenti davvero incisivi. Produrranno un sistema iper-maggioritario, in cui una minoranza sarà in grado di prendere tutto: il governo, il controllo dell’unica Camera che conti, la presidenza della Repubblica, le nomine alla Corte Costituzionale, al Consiglio superiore della magistratura, alla Rai, alle Authority. A pensare a questo accentramento di potere gestito da un Berlusconi vengono brividi di terrore.
Le altissime soglie di sbarramento previste dall’Italicum renderanno praticamente impossibile l’emergere di altre forze politiche, congelando il potere di manovra nelle mani delle tre attualmente più forti (ma di fatto solo di Pd e Forza Italia, se non cambia l’atteggiamento dei 5 Stelle di rifiuto per qualsiasi coalizione). I meccanismi di composizione delle liste daranno ai leader dei partiti la possibilità di determinare chi verrà eletto. Tutto il sistema di pesi e contrappesi ne risulterà sconvolto, la nostra democrazia parlamentare si trasformerà in una democrazia autoritaria, col rischio concreto di compiere un ulteriore passo verso una “democrazia” plebiscitaria.
Tutto questo in nome della “governabilità”. La quale, come stiamo vedendo, non solo non garantisce che le decisioni che si prendono saranno poi quelle giuste, ma è un concetto quanto mai incerto. Non c’è sistema istituzionale che garantisca la governabilità sempre e comunque (a parte la dittatura). Abbiamo visto sistemi come quello inglese e americano, indicati per decenni come modello a questo proposito, che sono andati in crisi non meno del nostro quando sono cambiate le condizioni politiche nei rispettivi paesi. In Europa ci sono stati e ci sono numerosi governi di minoranza, ma non sembra che questo abbia provocato particolari disastri da nessuna parte. Qui da noi abbiamo inseguito per anni il bipolarismo, sempre in nome della governabilità, e nelle elezioni del 2008 lo schieramento guidato da Berlusconi ha ottenuto una maggioranza nettissima in entrambi i rami del Parlamento: si è visto quale governabilità questo abbia prodotto. Insomma: stiamo sfasciando la Costituzione per inseguire uno slogan.
Le cose non vanno meglio per l’economia. Lo 0,8% di crescita del Pil ipotizzato per quest’anno nella Legge di stabilità è ormai un sogno irraggiungibile, come lo 0,6 più prudentemente stimato dalla Commissione e persino lo 0,2 previsto più recentemente da Confindustria. Dopo il pessimo risultato della produzione industriale a maggio Ref, un centro studi molto accreditato, ha stimato anche per quest’anno crescita zero. E a vedere come vanno le cose non si può escludere nulla: il miglioramento previsto per la seconda parte dell’anno potrebbe deludere ancora una volta le attese (come avverte Bankitalia, mettendo le mani avanti dopo la sua stima di +0,2) e regalarci il terzo anno consecutivo col segno meno, una cosa mai vista prima.
Dall’Europa non c’è da aspettarsi niente di buono. Il rilancio della crescita che Renzi aveva posto come condizione per appoggiare l’elezione alla presidenza della Commissione di Jean-Claude Juncker si è già rivelato un bluff: sotto il fumo delle belle parole del suo discorso di insediamento, Juncker ha confermato che “il patto di stabilità non si tocca” e chiarito che non verranno impegnate nuove risorse. La “flessibilità” è quella già prevista, cioè praticamente nulla. Non c’è da stupirsi, allora, se Stefano Fassina lancia un preoccupatissimo allarme, arrivando nelle conclusioni a ipotizzare una nostra uscita dall’euro non come scelta, ma come conseguenza della disastrosa politica che ci è imposta.
Di fronte a un tale scenario da brividi Renzi si occupa più che altro di sfasciare l’assetto istituzionale e prepara il famoso jobs-act che – ormai si è capito – insisterà nella ricetta della flessibilità del lavoro, come se non ci fossero state abbastanza prove che è del tutto inutile sia per l’aumento dell’occupazione che per il rilancio della crescita.
Già, si dirà, ma che potrebbe fare? Ci tocca camminare nel sentiero stretto imposto dall’Europa… Ebbene, forse per una volta potremmo prendere esempio da Mariano Rajoy, il leader conservatore spagnolo. Che, nonostante un rapporto deficit/Pil sideralmente lontano dagli obiettivi europei (7,2% lo scorso anno, 5,5 previsto quest’anno, ma tutt’altro che certo) ha appena annunciato clamorosi tagli delle tasse, sia alle persone fisiche che alle imprese che sulle attività finanziarie. Tagli che hanno una copertura? Macché, tutto in deficit. Rajoy lo fa perché si sta preparando alle elezioni, e di fronte alla probabilità di perderle se ne impipa dell’Europa. Noi naturalmente non dovremmo imitare la sua manovra, che porta l’impronta della sua parte politica. Dovremmo imitare solo il fatto che di fronte a qualcuno che ti spinge al suicidio si fa prevalere lo spirito di conservazione. Quindi, basta tagli al bilancio (la spending review va bene, ma non per tagliare, solo per un’allocazione più efficiente delle risorse) e investimenti in deficit (sì, in deficit) in misura sufficiente a far davvero ripartire l’economia, almeno un punto e mezzo di Pil, mirati sui settori che hanno moltiplicatori migliori e meno contenuto di import. La Commissione s’arrabbia? Ce ne faremo una ragione. Riapre la procedura di infrazione? Meglio quella che aggravare l’agonia.
E i mercati, non ci punirebbero i mercati? I mercati, cioè un certo numero di speculatori per lo più del tutto incompetenti di macroeconomia, potranno forse spaventarsi all’inizio, ma se poi il nostro Pil invece che zero fa +2, persino loro capirebbero che è una ricetta migliore dell’austerità.
Per prendere queste decisioni non c’è neanche bisogno di parlare bene l’inglese. Basta un minimo di buon senso e un po’ di coraggio.