Buoni-scuola,
tre motivi per dire no
Non solo la qualità delle scuole private è inferiore, non solo sottraendo altre risorse all'istruzione pubblica, dove già spendiamo meno di tutta Europa, la si condanna al degrado e a diventare un "servizio per poveri". Soprattutto, un incentivo alle scuole "identitarie" distruggerebbe il più potente strumento di integrazione per la nostra società ormai multiculturale e multireligiosa
(pubblicato su Repubblica.it il 4 mar 2015)
Nel disegno di legge sulla riforma della scuola rispuntano gli sgravi fiscali per chi scelga le private e i buoni (cioè soldi dati dallo Stato) per gli incapienti, ossia coloro che hanno un reddito basso e quindi pagano di tasse nulla o una cifra insufficiente per sfruttare gli sgravi. Così come la distruzione dell’articolo 18 era un obiettivo storico della destra che finora non era riuscita a realizzare, così questo del finanziamento a chi sceglie le scuole private è un altro obiettivo storico contro cui la sinistra si è sempre battuta, sostenuto dai liberali – in nome della libertà di scelta individuale – e da una parte dei cattolici, che alla gestione della scuola hanno sempre puntato perché coniuga l’educazione confessionale con la possibilità di gestire un gran numero di posti di lavoro.
Quando la politica era ancora un confronto fra diverse visioni della società questo problema era considerato molto importante. Il primo governo Moro, nel 1964, cadde proprio perché il Psi, che all’epoca era ancora un partito di sinistra, si oppose al finanziamento pubblico delle scuole cattoliche. Oggi al posto delle idee, specie in quella che era la sinistra, c’è una marmellata indistinta in cui navigano le lobby, quindi tutto diventa possibile. Ma che i finanziamenti alla scuola privata siano uno sbaglio, un grave sbaglio, bisogna riaffermarlo con forza: non in base a qualche supposta “ideologia del secolo scorso”, ma a ragioni che possono essere adeguatamente motivate.
Le scuole private in Italia sono al momento essenzialmente di tre tipi. Ce ne sono alcune (poche) di eccellenza, che naturalmente hanno un costo proporzionale al prestigio. Poi ci sono i “diplomifici”, quelle che fanno fare due, tre, quattro anni in uno ai somari che nella scuola normale non riescono ad andare avanti e che, come varie inchieste giornalistiche hanno documentato, usano a volte sistemi assai disinvolti per far ottenere ai loro iscritti il tanto sospirato “pezzo di carta” finale. E poi ci sono le scuole cattoliche, che in qualche caso possono far parte anche della seconda categoria.
Qualità. La maggior parte delle scuole private è di qualità scadente. Non è un’affermazione impressionistica, lo dicono i risultati del test internazionale Pisa, quello condotto ogni tre anni dall’Ocse per valutare il livello degli studenti nella comprensione di un testo e nelle abilità matematiche e scientifiche. Come osservava il matematico Saverio Giuliani in un articolo pubblicato sul sito della Bocconi, “In tutte e tre le “specialità” la scuola pubblica italiana naviga un po’ al di sopra di metà classifica, tra la 25a e la 28a posizione (su 64 paesi). Sul versante privato la situazione precipita: perdiamo oltre 20 posizioni, oscillando tra la 47a e la 49a posizione (su 61 paesi) ma, cosa assai più grave, gli studenti delle scuole private ottengono punteggi tra i 70 e i 73 punti inferiori alla media Ocse relativa al settore privato”.
Giuliani analizzava i risultati del test 2009, ma in quello 2012 la situazione non è cambiata, come scrive il sito Orizzonte scuola, che riporta anche un grafico da cui risulta la superiorità della scuola pubblica, seguita dalle private non finanziate dallo Stato (con ogni probabilità sono qui i pochi istituti di eccellenza che alzano la media), mentre le private con finanziamenti pubblici mostrano i risultati peggiori.
Pluralismo. La scuola pubblica accoglie tutti ed è un fondamentale strumento di integrazione: una volta solo fra strati sociali, ma oggi, cosa ancora più importante, fra ragazzi con retroterra culturali e religiosi molto diversi. Nel melting pot dell’Italia contemporanea è un’occasione unica per costruire le basi di una reciproca comprensione e accettazione delle mutue diversità. Quale altra occasione ci sarebbe di tenere insieme questi ragazzi tutti giorni per molte ore, impegnati in un compito comune di apprendimento? Questo, nella situazione attuale, è forse l’aspetto più importante, anche più della qualità dell’istruzione e dei fattori di cui parleremo in seguito.
Vediamo invece cosa potrebbe accadere nell’altro caso. Già abbiamo avuto una “scuola padana”, cosa, più che preoccupante, ridicola. Ma non è invece da sottovalutare il fatto che ogni gruppo etnico sarebbe incentivato a farsi le “sue” scuole, rafforzando così la separazione culturale che già deriva dal contesto familiare. E chi – e come – controllerà che le scuole islamiche non diventino madrasse dove si indottrina alle interpretazioni più estremiste? Ma anche fingendo che questo problema non esista, diffondere scuole monoculturali in una fase in cui uno dei problemi più complessi è la convivenza tra gruppi eterogenei, davvero non è un’idea sensata.
Risorse. La spesa pubblica per l’istruzione in Italia (che comprende anche i sussidi alle private) è già la più bassa tra i paesi avanzati e all’ultimo posto nell’Unione europea, ed è fortemente diminuita dal 2000 all’anno scorso. Nel 2015 aumenterà un po’, ma soprattutto per l’assunzione dei 120.000 precari promessa dal governo. Dirottare altri soldi a favore dell’istruzione privata significa voler distruggere la scuola pubblica, visto che è difficile pensare, non solo nella fase attuale ma anche per parecchi anni a venire, che le risorse per questo capitolo possano crescere sensibilmente.
E siccome la qualità del servizio è correlata alla spesa (fatto, oltre che intuitivo, attestato anche da ricerche in proposito), diminuire le risorse per la scuola pubblica significa condannarla a peggiorare. A quel punto sarà fin troppo facile affermare che la scuola pubblica non vale quello che costa, e dunque aumentare le pressioni per favorire quella privata, dando origine ad un circolo vizioso il cui punto di arrivo sarà una scuola pubblica di scarsa qualità destinata ai meno abbienti, mentre chi vorrà che i propri figli imparino qualcosa dovrà fare sostanziose aggiunte di tasca propria al bonus statale, destinato peraltro a ridursi come importo perché tarato sul costo standard per studente.
Conclusioni. La nostra scuola pubblica non sfigura affatto nel confronto con quelle degli altri paesi. Anzi, considerando che le destiniamo meno risorse (e, come si è detto, i risultati sono fortemente correlata ad esse) possiamo dire che è di buona qualità; se poi togliessimo dal campione gli istituti professionali, che abbassano nettamente la media, potremmo definirla ottima.
Sottrarle ancora risorse significherebbe condannarla a un inevitabile deterioramento e, in prospettiva, ridurla a un servizio scadente per i meno abbienti, aggravando così la loro condizione di svantaggio sociale.
Soprattutto, incentivando le scuole “identitarie” rinunceremmo a un prezioso e insostituibile strumento di integrazione sociale fra le molte etnie, culture e religioni che sono destinate a diffondersi sempre più nel nostro paese, con conseguenze sociali difficili da valutare ma certamente non desiderabili. Chi sostiene l’istituzione del bonus scuola, in quel caso davvero dimostra di pensare con i criteri del passato, quando in Italia finanziare la scuola privata significava solo dare soldi alle scuole cattoliche e a qualche “diplomificio”. Oggi non è più così e il governo, che afferma di fare della modernità una bandiera, farebbe bene a prenderne atto.