Lavoro e salari,
il già noto ignorato
Puntuali anche quest'anno i dati Eurostat ripetono che il nostro costo del lavoro è tra i più bassi dei paesi comparabili, nonostante che il cuneo fiscale sia tra i più alti. Se dunque dobbiamo essere più competitivi non ha senso insistere su quel fattore o sulle regole: la produttività si aumenta con gli investimenti. Intanto i dati Istat hanno sgonfiato i trionfalismi sull'occupazione
(pubblicato su Repubblica.it il 31 mar 2015)
Come ogni anno i dati Eurostat arrivano a ricordarci quanto sia sbagliata una politica che continua a insistere sul costo e sulle regole del lavoro per non affrontare i veri problemi che minano la competitività dell'Italia. E' incredibile che si sentano ancora presunti esperti affermare che in Italia "sì, i salari netti sono bassi, ma il costo del lavoro è tra i più alti per colpa del cuneo fiscale". Ebbene, come confermano per l'ennesima volta questi dati, è vero che il "cuneo fiscale" (che è peraltro una definizione impropria) è un po' sopra la media dell'eurozona, ma nonostante questo il costo totale del lavoro (cuneo compreso, quindi) è tra i più bassi tra quelli dei paesi comparabili al nostro. Nella tabella di Eurostat, in cui i paesi sono messi un po' a casaccio (un modo per rendere più faticoso il confronto?), siamo al 13° posto su 29, ma di paesi più o meno comparabili dietro di noi ci sono solo Spagna e Regno Unito (quest'ultimo grazie al bassissimo prelievo previdenziale, perché lì la pensione pubblica è poca cosa). Ecco un grafico che mostra invece chi ci sta davanti e di quanto.
Due parole anche sul "cuneo". Che è detto "fiscale" ma, appunto, si tratta di una definizione impropria, perché è vero che lì dentro ci sono le tasse, ma non è la parte più importante. Assai di più pesano i contributi previdenziali e quelli per il Tfr (che dunque non possono essere considerati un prelievo, ma semmai un risparmio forzoso, visto che poi i loro frutti torneranno al lavoratore); e poi c'è l'assicurazione contro gli infortuni e varie altre voci con percentuali prevalentemente piccole o piccolissime. Per ridurre sensibilmente il cuneo, dunque,bisognerebbe intervenire sui contributi previdenziali, il che, visto che ormai abbiamo un sistema di calcolo a capitalizzazione (cioè l'entità dei contributi versati determina l'importo della pensione), significherebbe ridurre ancora quello che si percepirà quando si smette di lavorare. A qualcuno sembra una buona idea?
Se dunque il nostro paese non è abbastanza competitivo ciò non dipende dal costo del lavoro, ma dall'insufficiente produttività, che si aumenta con gli investimenti, con l'innovazione e con l'eliminazione degli ostacoli esterni alle imprese (problemi burocratici, giustizia civile, infrastrutture, ecc.). Sono discorsi fatti infinite volte e sembrerebbe assurdo ripeterli per l'ennesima, se non fosse che poi, nella pratica, sempre lì si va a parare: sulla riduzione del costo del lavoro. Il che ha effetti negativi sul piano macroeconomico, non bisogna dimenticarlo: rimpicciolisce il mercato interno, perché la gente ha meno soldi da spendere e di conseguenza le aziende produrranno meno, visto che si compra meno.
Ma bisogna fare almeno un cenno anche ad altri dati, quelli sull'occupazione. Che, a febbraio, è diminuita di 44.000 unità rispetto a un anno prima. Il dato arriva pochi giorni dopo quello trionfale sulle richieste all'Inps per i nuovi contratti a tempo indeterminato. Viene dunque da pensare che quelle 76.000 richieste non siano state per posti aggiuntivi, ma, almeno prevalentemente, sostitutivi di rapporti già esistenti, per sfruttare gli appetitosi incentivi del governo. I posti di lavoro non si creano a suon di leggi sulle regole. Tutte cose che sappiamo da tempo, dette e ripetute. Quante volte bisognerà ripeterle ancora?