Banche, siamo sicuri
che "grande è bello"?
La parola d'ordine è "aggregare" e nessuno solleva dubbi che sia la strada giusta. Eppure i colossi della finanza hanno dato pessime prove. Il fatto è che si è dimenticato quale sia il compito essenziale di un sistema creditizio. E si ignora una cosa ancora più importante: i giganti (nel credito e non) stanno uccidendo la democrazia
(pubblicato su Repubblica.it il 30 gen 2016)
Aggregare, fondere, ridurre di numero. E' la parola d'ordine per le banche, non da oggi, ma da molti anni, e in tutto il mondo. Che ci facciamo con quasi 400 piccole Banche di credito cooperativo, quasi tutte monosportello? Aggregare, che diventino una sola. Pensa che risparmio, unificare tutte le struttura possibili, che eliminazione di sprechi, che guadagni di efficienza. E poi vuoi mettere, da 400 banchette insignificanti ne viene fori una bella grossa. Ma mica solo quelle bisogna fondere, anche quelle più grosse, come Monte Paschi, Ubi e compagnia. Perché noi abbiamo ancora solo due banche "di dimensione europea", Intesa e Unicredit.
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già, qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo, non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente, nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi), standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo. In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole, in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati, appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati - e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" - come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla. L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E' una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto, la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.