L'Economist e Fortune:
salari troppo bassi
Il settimanale britannico osserva che la produttività è in calo da 40 anni in tutto il mondo e dopo aver scartato varie ipotesi si chiede "se il legame tra bassa produttività e bassi salari non funzioni in entrambi i sensi". La rivista Usa racconta di McDonald's che dopo aver concesso aumenti ha invertito il trend negativo delle vendite
(pubblicato su Repubblica.it il 22 mar 2016)
Economist e Fortune sono forse le riviste più lette dalla business community internazionale e naturalmente hanno sempre innalzato il vessillo del libero mercato. Così, fa un certo effetto constatare che negli stessi giorni pubblichino due articoli che, pur da prospettive diverse, concludono entrambi che salari troppo bassi non sono una buona cosa neanche per le imprese e dunque per il buon andamento dell'economia.
L'Economist affronta il problema della produttività, osservando che negli ultimi 40 anni mostra un trend calante non solo nei paesi più avanzati, ma anche in quelli che avrebbero molti spazi per migliorare, come Messico e Turchia. Ecco l'andamento della media mobile a dieci anni per ora lavorata.
Il settimanale britannico passa in rassegna vari studi in proposito dando conto delle ipotesi avanzate: progresso tecnologico meno incisivo (ma allora, osserva, non dovrebbe accadere nei paesi in via di sviluppo); problemi di misurazione (ma allora perché negli ultimi anni '90 si registrò un aumento del ritmo della produttività? Le misurazioni non sono certo peggiorate da allora); oppure che non funziona bene la "distruzione creativa", cioè la sostituzione di aziende troppo mature con altre più innovative, o infine che ci siano troppo regole che ostacolano gli affari. Ma anche queste tesi appaiono poco convincenti.
E se invece avessero ragione, conclude il settimanale, coloro che cominciano a chiedersi se il legame tra bassa produttività e bassi salari non funzioni in entrambi i sensi? Perché in fondo il lavoro a buon mercato non stimola le aziende ad innovare, e l'America ha una "insolita combinazione" di forte occupazione e debolezza delle retribuzioni. Forse, conclude l'analisi, è ora che i politici diano di nuovo priorità all'obiettivo della piena occupazione per rilanciare sia la produttività che la crescita dei salari.
Questa conclusione assesta una potente picconata ad alcuni principi di base delle teorie che hanno dominato l'analisi economica nell'ultimo mezzo secolo (...appunto). Mi si perdoni l'auto-citazione, ma qualcosa di simile l'avevo scritta in un articolo del 2009, per poi scoprire che anche un saggio dell'anno precedente e uno dell'anno successivo, ad opera di economisti di professione, sostenevano cose analoghe. Se adesso lo scrive anche l'Economist, è forse un segno che la prova della realtà sta rendendo non più difendibili le teorie finora dominanti.
L'articolo di Fortune riguarda invece un caso molto pratico, ossia il fatto che McDonald's ha deciso lo scorso anno di dare un aumento ai suoi dipendenti, portando la paga oraria da 9.01 a 9.90 dollari a partire da luglio 2015, per poi superare i 10 dollari a fine 2016. Si tratta sempre di una retribuzione molto bassa, corrispondente al salario minimo dopo l'ultimo aumento varato da Obama (che però vale solo per i dipendenti federali e quelli delle ditte che hanno appalti federali; così come l'aumento è deciso solo per i dipendenti McDonald's e non per quelli che hanno solo il marchio in franchising, che sono circa il 90%: ma è probabile che molti si adegueranno). Ma è comunque un miglioramento di un buon 10%, a cui si sono aggiunti ben cinque giorni di ferie retribuite per chi abbia almeno un anno di anzianità.
L'aumento fa parte di un pacchetto di decisioni prese dall'amministratore delegato entrato in carica l'anno scorso per fronteggiare una crisi delle vendite che durava da anni. E ha avuto successo: in ottobre l'azienda ha visto il primo aumento delle vendite dopo due anni e nel trimestre seguente la crescita è stata del 5,7%, mentre si riduceva sensibilmente il turnover dei dipendenti, molti dei quali non resistevano più di 90 giorni. L'articolo conclude affermando che Walmart, la più grande catena di supermercati del mondo, nota per la sua politica antisindacale e i suoi salari da fame, vedendo questi risultati ha anch'essa concesso un aumento, dopo il quale i punteggi sulla soddisfazione dei clienti sono aumentati.
L'economista Robert Reich, che fu tra l'altro ministro del Lavoro nell'amministrazione Clinton, ha commentato sul suo profilo su Facebook: "Molti di noi avevano previsto esattamente questo risultato. Se McDonald's aumentasse il salario minimo ancora un po', a 11 o addirittura 12 dollari l'ora, l'aumento dei costi sarebbe più che compensato dai risparmi prodotti da una migliore possibilità di scelta su chi assumere e una maggiore fedeltà dei dipendenti, e le vendite salirebbero ancora perché i clienti sarebbero più soddisfatti. Perché la società ci ha messo tanto tempo a capirlo e perché fa ancora ferocemente lobbying contro gli aumenti statali e federali? Perché il top management di McDonald's, come quello di Walmart, ha sposato un'ideologia secondo cui salari minimi più elevati producono maggiori costi e minori profitti. Anche quando la prova dei fatti li smentisce e sono costretti ad ammetterlo pubblicamente, questa ideologia rimane incrollabile".
Le critiche dal punto di vista macroeconomico alla progressiva perdita di peso della massa salariale rispetto al Pil (e alla distribuzione sempre più diseguale del reddito), iniziata con gli anni '80, sono note. Il grafico è sugli Usa, ma l'andamento è generale e anche in Italia è stato analogo. Ma ora, se due riviste leader nell'informazione economica cominciano ad occuparsi anche delle critiche dal punto di vista micro, forse vuol dire che stanno maturando i tempi per una revisione delle teorie che nell'ultimo mezzo secolo hanno esercitato un'egemonia praticamente assoluta. In Italia (e in Europa), però, sembra che queste siano ancora riflessioni aliene, visto che tutti gli sforzi continuano ad essere concentrati sulla riduzione del costo del lavoro, nell'illusione che sia quella la soluzione a una crisi che non passa. Speriamo che Renzi, che notoriamente conosce l'inglese, abbia letto gli articoli dell'Economist e di Fortune e ci faccia sopra qualche pensierino.