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 Economia Riduci

Parte il big bang delle banche
ma la riforma è ancora a metà

Articolo pubblicato su Affari & Finanza del 24 ottobre 2016 sul periodo 1990-95 individuato come quello in cui iniziò la trasformazione del sistema bancario. Il titolo è quello fatto dalla redazione

Nel corso del 1990 due Consigli europei definivano quello che sarebbe stato il Trattato di Maastricht, che sarebbe stato approvato nella cittadina olandese il 9 dicembre 1991 e firmato ufficialmente il 7 febbraio dell'anno successivo. L'elaborazione avveniva l'anno dopo la caduta del Muro di Berlino, e questo non è senza significato. Quella che era stata considerata l'alternativa al capitalismo era fallita, sconcertando anche i socialdemocratici che pure non avrebbero dovuto sentirsi toccati dalla fine di un'idea politica che in teoria avevano da tempo ripudiato. Così, anche le sinistre riformiste si arresero a quella che appariva l'ideologia vincente: senza riflettere sul fatto che le teorie economiche allora egemoni (e purtroppo ancora oggi) rappresentavano solo una delle possibili forme di capitalismo, e per giunta quella più intrinsecamente reazionaria. Gli anni '90 dell'Italia vanno visti attraverso questa chiave di lettura: è allora che inizia la trasformazione, tuttora in atto, del modello sociale costruito in Europa nel dopoguerra.

E non è certo un fenomeno solo italiano: la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, che anch'essa data da allora, fornisce una potente spinta alla globalizzazione dell'economia, e rende gli Stati soggetti ai colpi della finanza. Il primo grande segnale che tutto è cambiato è la crisi del Sistema monetario europeo nel 1992: la forza che le nuove regole hanno dato ai mercati fa sì che venga battuta non una sola banca centrale, ma il sistema delle 13 banche centrali dei paesi che aderivano all'accordo di cambio.

Si capisce che in Italia inizi una nuova era. La crisi del '92 travolge le resistenze a procedere con le privatizzazioni e a riformare il sistema bancario. Presidente del Consiglio è Giuliano Amato e porta il suo nome la legge (varata due anni prima) che spinge le banche a trasformarsi in Spa, premessa indispensabile per avviare una razionalizzazione del sistema attraverso fusioni e acquisizioni. All'epoca quasi tutto il sistema creditizio è riconducibile - sotto varie forme giuridiche - all'area pubblica e anche le più grandi banche italiane sono minuscole rispetto ai giganti del credito che in tutti i paesi avanzati stanno diventando sempre più grandi.

In realtà la trasformazione del sistema bancario era iniziata già nel decennio precedente, per adeguarsi al modello prevalente negli altri paesi avanzati. Per prima era cambiata la vigilanza, passata dai controlli diretti (cioè sulle singole operazioni oltre un certo importo) a quelli indiretti (attraverso i coefficienti di capitale e di rischio). Poi era arrivata la concorrenza. Fino a metà degli anni '80 solo poche banche potevano operare su tutto il territorio nazionale, le altre in ambiti territoriali definiti, a meno di specifiche autorizzazioni di Bankitalia ad aprire sportelli fuori di essi. Con la liberalizzazione degli sportelli tutti potevano operare dappertutto: chi era adulto allora ricorderà la rapida moltiplicazione delle agenzie nelle città.

La legge Amato del '90 stabilisce che gli istituti di credito di diritto pubblico (Bnl, Banco di Napoli, Banco di Sardegna, Banco di Sicilia, San Paolo di Torino, Monte dei Paschi di Siena) e le Casse di Risparmio costituiscano società per azioni a cui conferire l'attività bancaria. Le azioni restano in capo a Fondazioni, che dovranno man mano alienarle vendendole sul mercato. Le Fondazioni useranno la rendita del patrimonio così costituito per beneficienza e opere di pubblica utilità. L'idea è che la proprietà delle banche passi al mercato, ma come spesso accade il processo si rivelerà lunghissimo: il controllo di una banca conferisce un notevole potere, e le Fondazioni, i cui consigli sono di nomina politica, non sono molto propense a rinunciarci. Serviranno altri provvedimenti legislativi per spingere un cambiamento che altrimenti sarebbe rimasto bloccato e che ancora oggi non è concluso, perché le Fondazioni mantengono quasi sempre posizioni di rilievo nell'azionariato anche delle banche più importanti.

La prima privatizzazione vera e propria, varata con la manovra del '92, sarà quella del Credito Italiano (quello che oggi è diventato Unicredit), allora di proprietà dell'Iri insieme a Banca Commerciale, Banco di Roma e Banco Santo Spirito, queste ultime due in notevoli difficoltà.

Per buona parte del decennio, comunque, le aggregazioni sono piuttosto conseguenza della necessità di fronteggiare crisi che di scelte di mercato. Così ad esempio la cessione prima del Santo Spirito e poi del BancoRoma alla Cassa di risparmio di Roma, che darà origine alla Banca di Roma (1992). Un'operazione che fa discutere. L'Iri prima cede alla Cassa (guidata da Cesare Geronzi) il S. Spirito per circa 700 miliardi di lire, usa quei soldi per ricapitalizzare il BancoRoma e poi lo conferisce ad una holding che controlla le due banche citate avendo in cambio una partecipazione di minoranza. E' un primo esempio di privatizzazione "all'italiana", in cui il settore pubblico non sembra valorizzare adeguatamente i suoi asset. Romano Prodi, all'epoca presidente dell'Iri, dirà che si trattava di una via obbligata, perché il BancoRoma doveva essere ricapitalizzato e l'istituto non ne aveva la possibilità. In questo panorama fa eccezione - nel 1994 - l'Opa lanciata sul Credito Romagnolo dal Credito Italiano, guidato da un banchiere, Lucio Rondelli, che nonostante i suoi 70 anni è il più pronto a cogliere le occasioni che la nuova situazione ha creato.

In quegli anni, insomma, si avvia un processo che ancora oggi non è terminato. E' recente la riforma delle Banche Popolari, che avevano mantenuto la forma di cooperative (e quindi il voto capitario in assemblea): quelle con oltre 8 miliardi di attivo devono trasformarsi in Spa. Varata anche l'aggregazione delle Banche di credito cooperativo (oggi 337, allora 400), tutte molto piccole perché potevano operare in un solo Comune. Proseguono le fusioni (la più recente Bpm-Banco Popolare).

Il sistema del credito non poteva restare fermo mentre il mondo cambiava. Eppure nonostante tutte le trasformazioni non sembra che sia stata ancora trovata la ricetta giusta. Al netto dei colpi della crisi, il settore - e non solo in Italia - non sembra godere di ottima salute. Più che le banche, sarebbe ora di regolare meglio il sistema mondiale della finanza.

Box

Credito all'economia? "Ci pensi lo Stato"

Come guadagnano le banche? Con la finanza, prima di tutto (quando va bene). E poi con i servizi ai clienti, la vendita di prodotti finanziari e persino vendendo le cose più disparate, dalle assicurazioni auto ai televisori. Guadagno zero, invece, con l'attività che è la loro ragione di esistere: i prestiti all'economia. Un po' colpa dei tassi a zero, che hanno falcidiato i margini, ma anche prima che questo accadesse con l'attività bancaria caratteristica non si guadagnava più da parecchi anni. I profitti sui prestiti che vanno a buon fine se li mangiano le perdite su quelli per cui va male.

Confessava già tre anni fa il capo ufficio studi di una banca d'affari da sempre considerata un tempio del capitalismo: "I prestiti all'economia ormai sono una commodity. Non vedo all'orizzonte un cambiamento della situazione.  Penso che quel compito dovrà finire per svolgerlo lo Stato". Bestemmia, paradosso, in un mondo che vuole privatizzare qualsiasi cosa? Può darsi. Sta di fatto che persino l'ex leader britannico David Cameron, uno che ha fatto sembrare la Thatcher una socialdemocratica, nel corso di quest'ultima crisi ha dato vita a ben tre banche pubbliche per finanziare le imprese. Se l'ha fatto lui...

Sarebbe davvero un bello scherzo della storia se, dopo tutti questi sforzi per privatizzare il sistema creditizio, la conclusione fosse che alla fine deve pensarci lo Stato.


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