Lettera aperta
a Pier Luigi Bersani
Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e autorevole rappresentante della minoranza del partito, ha diffuso un suo intervento dal titolo "Il centrosinistra deve dare vita a una nuova piattaforma politica. La via seguita finora è sbagliata", che conclude auspicando una discussione. Con questa "lettera aperta" - da semplice cittadino - accolgo l'invito
(pubblicato su Repubblica.it il 1 gen 2017)
Caro Bersani,
ho letto con attenzione il tuo intervento che propone una nuova piattaforma politica e vorrei fare alcune osservazioni in proposito, come cittadino che alle prossime elezioni vorrebbe poter votare per un partito orientato a sinistra.
Nonostante che ci siano varie cose che non condivido, considero questo intervento una base di discussione, perché mi sembra ispirato a valori di fondo che sono quelli tradizionali della sinistra, quelli che la finta sinistra dei "nuovisti" considera sorpassati. Ma se quei valori non poggiano su una analisi corretta di quello che è accaduto negli ultimi decenni, non ne può scaturire una strategia adeguata a realizzarli.
Da quello che scrivi emerge che consideri la globalizzazione un fenomeno positivo - perché ha fatto uscire dalla miseria centinaia di milioni di persone - mentre sono negative le "scorie" che ci lascia quello che definisci il suo "ripiegamento". Cominciamo da questo: si può definire "ripiegamento" un trend congiunturale, mentre nessuno dei fattori strutturali della globalizzazione è cambiato? Fattori strutturali come la libera e illimitata circolazione dei capitali, connessa con l'inerzia verso i paradisi fiscali; il dumping sociale; la permissività verso strumenti e strutture finanziarie che agiscono al di fuori di ogni regola; la privatizzazione di compiti che dovrebbero essere affidati al settore pubblico, o perché in inevitabile conflitto di interessi, o perché monopoli naturali, o per evitare selezioni avverse, o perché i supposti guadagni di efficienza nella gestione risultano nei fatti sempre e comunque minori dei maggiori costi derivanti dalla massimizzazione dei profitti da parte dei privati.
Quelle che definisci "scorie" sono in gran parte fattori costitutivi del processo di globalizzazione così come è stato attuato. Un processo voluto e guidato dalle multinazionali che volevano un enorme esercito industriale di riserva necessario ad annichilire il potere contrattuale dei lavoratori, mentre l'assoluta libertà di movimento dei capitali era necessaria sia ad averne la disponibilità laddove si decideva di delocalizzare le produzioni, sia ad esasperare la concorrenza fiscale e normativa e sia infine ad impiegare al meglio i prodotti della superfetazione della finanza.
Nessuno può certo dolersi se milioni di individui sono usciti dalla miseria, ma è anche fondamentale chiedersi da dove sono state estratte le risorse che lo hanno reso possibile. Sono state estratte dalle classi medie dei paesi di più antico sviluppo, e gli strati inferiori di quelle classi medie sono stati spinti nella povertà. Nello stesso tempo i redditi e la ricchezza dell'1% - e ancor di più quelli dello 0,1% - si impennavano a livelli mai più toccati dalla prima parte del secolo scorso. E' francamente difficile trarre un bilancio positivo da tutto questo, soprattutto perché non c'è a tutt'oggi nessun segno che quegli squilibri si vogliano in qualche modo correggere, e anzi il pensiero dominante è che si debba proseguire con ancor più decisione nello stesso modo.
All'origine di tutto c'è una concezione fideistica della "mano invisibile" come deus ex machina ordinatore non solo dell'economia, ma di tutta la società. E un conseguente rigetto sia dei compiti dello Stato, che devono essere ridotti al minimo, sia della discrezionalità della politica, che non deve poter scegliere: There is no alternative. In Europa questa concezione viene declinata secondo i principi dell'ordoliberismo, che assegna invece alla mano pubblica un potere forte, ma solo al fine di realizzare le migliori condizioni per la concorrenza, cioè per far funzionare al meglio il mercato. L'Unione è stata costruita secondo questi principi, aggiungendo un richiamo all'"economia sociale di mercato" che denuncia, da parte dei progressisti che l'hanno sostenuto, un fraintendimento del reale significato di quell'espressione.
E' un fraintendimento anche che "tutto questo sia avvenuto in nome del consumatore". Colin Crouch ha ben spiegato la truffa che si nasconde dietro questo sbandierato principio. Le multinazionali hanno imposto l'interpretazione che il danno provocato ai consumatori non deve considerarsi tale se l'operazione in esame ha l'effetto di accrescere la ricchezza complessiva, perché il guadagno indiretto supera quello diretto. Naturalmente, non rileva il problema di come e a chi questo "maggior guadagno indiretto" venga poi distribuito, ma le statistiche sulla disuguaglianza ce ne danno un'idea piuttosto precisa.
La difesa del consumatore, che per il neoliberismo è solo un alibi, è certo una buona cosa. Ma non deve far dimenticare che l'individuo prima che un consumatore è un cittadino, a cui l'evoluzione storica ha conferito diritti politici, sociali, di cittadinanza: tutti gravemente lesionati nei processi connessi alla globalizzazione. E "questa" Europa non solo non fa nulla per porvi riparo, ma è costruita in modo da aggravare sempre più questa situazione. Chi sostiene che la soluzione agli attuali problemi sia "più Europa" dovrebbe essere cosciente che sta chiedendo di rinforzare questa costruzione, che non solo non sanerà gli attuali squilibri, ma li aggraverà sempre più. Questo non significa che si debba rinunciare alla prospettiva dell'unione europea: l'ultimo mezzo secolo ci dice che la sua storia ha avuto arretramenti che sembravano mettere fine all'integrazione, che poi invece sono stati superati. Questa può essere una di quelle fasi: bisogna smettere di seguire una strada che ci conduce ad esiti disastrosi e arretrare per sceglierne un'altra.
Detto del contesto globale, l'analisi della situazione italiana proposta nell'intervento è piuttosto sconcertante. Bisognerebbe cominciare a ricordare che l'Italia, negli ultimi decenni, si è via via privata praticamente di tutti gli strumenti di controllo dell'economia. Prima si è legata ad un accordo di cambio contro cui il Pci mosse durissime critiche, affidate ad un intervento in Parlamento di Giorgio Napolitano. Poi, all'inizio degli anni '80, con il "divorzio" Tesoro-Bankitalia si è privata di uno strumento di intervento sui tassi d'interesse, cosa che già allora, per un paese con un debito pubblico elevato, appariva poco prudente. Nel decennio successivo la liquidazione di gran parte dell'industria pubblica (e la privatizzazione del sistema creditizio) ha eliminato quelli che sarebbero stati forti strumenti delle politica industriale, posto che l'idea stessa avesse continuato ad avere diritto di cittadinanza, come invece non è stato. Gli investimenti pubblici iniziano da allora un declino proseguito fino agli attuali minimi storici. Si decide poi l'ingresso nell'euro, con la rinuncia definitiva allo strumento del cambio. Infine, a crisi già esplosa, si accetta il Fiscal compact, che elimina anche la possibilità di una politica di bilancio anticongiunturale. Altro che mancanza di solidarietà! Ci siamo consegnati, mani e piedi legati, ai capricci dei mercati e agli interessi dei paesi dominanti in Europa, che non coincidono certo con i nostri interessi.
Come se questo non bastasse, i governi che si sono succeduti dallo scoppio della crisi hanno sbagliato tutto il possibile, in particolare il governo Renzi che si è preso maggiori spazi di manovra e li ha utilizzati al peggio. Quegli spazi erano insufficienti, perché le politiche di bilancio sono state comunque restrittive (tali sono quando il saldo primario è positivo, perché significa che il bilancio pubblico sottrae più risorse all'economia di quante non ne immetta). Ma per giunta quelle risorse sono state destinate principalmente a ridurre le tasse alle imprese e in misura minore a trasferimenti alle persone (per giunta in modo casuale), cioè ad impieghi con moltiplicatori minori di 1 (la crescita generata è inferiore alle risorse impiegate), mentre ormai tutti concordano sul fatto che il moltiplicatore degli investimenti pubblici è almeno 2 se non addirittura intorno a 3. Tagliare le spese per ridurre il debito, in una fase di congiuntura negativa, non fa altro che aggravare il problema, cosa di cui abbiamo avuto prova. Preoccuparsi del debito pubblico invece che della crescita, in una fase del genere, è come cercare di spegnere un incendio gettandoci sopra un liquido infiammabile.
Caro Bersani, la "discussione vera" che auspichi è più che necessaria, ma deve iniziare da lontano, dalle scelte che ci hanno fatto aderire al modello neoliberista abbandonando quello che ci aveva portati a diventare una delle maggiori potenze industriali del mondo (e conservandone, semmai, solo gli aspetti negativi, che pure non mancavano, e anzi aggravandoli). Continuare a ragionare sulla base di quel paradigma significa precludersi la prospettiva di una soluzione dei problemi che tu giustamente denunci.
Un cordiale saluto