Bankitalia, Europa e mainstream
Nelle Considerazioni finali di quest’anno niente più critiche alle scelte Ue e un’affermazione categorica di appartenenza all’Europa. Per l’economia italiana l’analisi e le ricette non si discostano un millimetro dalle teorie dominanti, quelle che hanno regalato al nostro paese un decennio tra recessioni e bassa crescita
(pubblicato su Repubblica.it il 31 mag 2018)
Nei due anni scorsi le Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco erano state fortemente critiche nei confronti delle scelte europee. Specie in quelle del 2017 era ricordato un nutrito elenco delle misure che avevano danneggiato l’Italia. Di questo, stavolta, non si trova traccia, e anzi alla conclusione del discorso, dove pure si ricorda che molti cambiamenti sarebbero necessari, Visco si esprime in modo categorico: “Il destino dell’Italia è quello dell’Europa. Siamo parte di una grande area economica profondamente integrata, il cui sviluppo determina il nostro e allo stesso tempo ne dipende. È importante che la voce dell’Italia sia autorevole nei contesti dove si deciderà il futuro dell’Unione europea”. E su questo, capitolo chiuso, è una scelta che non si discute.
Il paragrafo sull’economia italiana, dove il governatore oltre all’analisi della situazione (piuttosto ottimistica) traccia il programma delle cose da fare, conferma una volta di più che l’orientamento di Visco non si sposta di una virgola da quella impostazione mainstream che ha dominato il pensiero economico negli ultimi 40 anni.
Il primo problema ad essere citato è quello del debito pubblico: “Scoraggia gli investimenti aumentandone i costi di finanziamento e alimentando l’incertezza; accresce il ricorso a forme di tassazione distorsiva, con effetti negativi sulla capacità di generare reddito, risparmiare e investire; comprime i margini disponibili per politiche sociali e di stabilizzazione macroeconomica. Espone a crisi di fiducia, particolarmente pericolose quando, oltre a coprire il fabbisogno dell’anno, si devono rifinanziare ingenti importi di titoli in scadenza: in Italia si tratta complessivamente di circa 400 miliardi all’anno”. Dire che sia il debito pubblico a scoraggiare gli investimenti è come mostrare la tessera di un club a cui si appartiene. L’esperienza dovrebbe aver dimostrato che gli investimenti sono influenzati poco dal livello dei tassi e moltissimo dalla domanda, quella che politiche di bilancio restrittive mortificano, come è accaduto specialmente in questi ultimi anni. Ma le convinzioni teoriche spesso assomigliano alle religioni, i fatti non le scalfiscono.
Come si riduce il debito? “La dinamica del rapporto tra debito e prodotto dipende essenzialmente dal saldo di bilancio primario – ossia la differenza tra entrate e spese pubbliche al netto di quelle per interessi – e dal divario tra l’onere medio del debito e il tasso di crescita nominale dell’economia. Queste variabili si influenzano reciprocamente; in particolare, un peggioramento del saldo primario, anche solo atteso, può generare timori sulla solidità dei conti pubblici e innalzare i costi di finanziamento per lo Stato”. Siamo sempre lì, le “aspettative”: sembra che stiano tutti lì a scrutare se il saldo primario forse, eventualmente, potrebbe peggiorare di uno zero-virgola, e subito si scatena un rialzo dei tassi. Succede in certi modelli econometrici, ma la realtà è più complessa, e le aspettative non dipendono solo dagli zero-virgola (ipotizzati) del saldo primario, ma anche da molti altri fattori.
L’altra cosa ricordata da Visco è invece senza dubbio determinante per l’andamento del rapporto debito/Pil: se il tasso di crescita nominale del Pil supera il tasso medio degli interessi sul debito, il rapporto scende, se succede il contrario sale. Il tasso di crescita nominale del Pil si ottiene aggiungendo alla crescita reale l’andamento dei prezzi; ma non dei prezzi al consumo (quei dati diffusi ogni mese dall’Istat), ma di quelli misurati dal deflatore del Pil (anch’esso calcolato dall’Istat), che tiene conto di un maggior numero di beni rispetto a quelli considerati dal primo e anche dei prezzi dei prodotti importati. Ma, specie in questa fase di bassa inflazione, il fattore più importante è la crescita. E la crescita viene fortemente influenzata dalla politica di bilancio: se questa è restrittiva la crescita ne soffre, se è espansiva ne viene agevolata. Come si distingue una politica di bilancio restrittiva da una espansiva? Anche su questo ci sono varie definizioni, che, a parere di chi scrive, servono spesso a confondere le acque. Invece è molto semplice stabilirlo: se il saldo primario è positivo significa che lo Stato preleva (con tasse e contributi) più di quanto spende, quindi sta stringendo, se invece il saldo è negativo vuol dire che sta immettendo risorse in più nell’economia. Il nostro saldo primario è positivo da un quarto di secolo (con l’eccezione del 2009, anno di picco della crisi), e questo c’entra certamente qualcosa con la nostra bassa crescita.
Dalla crisi del 2008 non ci siamo ancora ripresi anche perché siamo tornati subito a fare bilanci con saldo primario attivo. Non così Usa, Regno Unito, Spagna e Francia, che hanno fatto all’inizio deficit altissimi, anche oltre il 10%, per poi ridurli molto progressivamente man mano che la crescita riprendeva: al 3% ci arrivano quest’anno, noi invece l’abbiamo fatto subito. Con quale risultato? Il nostro rapporto debito/Pil è aumentato, perché tagliando la spesa durante una crisi abbiamo ammazzato la crescita: il debito è salito moderatamente, ma il Pil ha sofferto moltissimo e dunque il rapporto è peggiorato.
Ebbene, secondo Visco “Il rapporto tra debito pubblico e PIL potrebbe tornare sotto il 100 per cento nel giro di dieci anni se venisse gradualmente conseguito un avanzo primario tra il 3 e il 4 per cento del prodotto, più elevato di circa due punti percentuali rispetto al livello attuale e coerente con il sostanziale pareggio di bilancio al netto degli effetti del ciclo”. Una stretta pesante, da mantenere per un decennio. Ma, prosegue il governatore, “Gli effetti moderatamente restrittivi dell’aumento dell’avanzo primario possono essere compensati da una riforma fiscale indirizzata a rendere il prelievo meno distorsivo e da una ricomposizione della spesa pubblica volta a stimolare la capacità produttiva”. Moderatamente restrittivi? Un avanzo primario del 4% per 10 anni è tutto fuorché moderato. La ricetta potrebbe funzionare solo se per tutto quel tempo il resto del mondo andasse benissimo (in modo da assorbire le nostre esportazioni), l’euro si mantenesse basso rispetto alle altre monete e i mercati finanziari rimanessero calmissimi e con tassi d’interesse vicini allo zero come ora. Una combinazione di fattori più rara dei passaggi della cometa di Halley. Per inciso, la ricetta di un saldo primario al 4% per molti anni è la stessa enunciata più volte da Carlo Cottarelli: stessa scuola.
Ovviamente il governatore non parla a caso. Dietro le sue parole ci sono i risultati ottenuti da complessi modelli econometrici: che, però, parlano la lingua che è stata loro insegnata, e quella lingua deriva da teorie che negli ultimi anni hanno subito smentite su aspetti fondamentali. Ciò nonostante, si continua a seguirle come se nulla fosse accaduto.
C’è ancora almeno un altro punto nelle Considerazioni che richiede una chiosa. “Il mercato del lavoro è stato oggetto di profonde innovazioni. Le riforme hanno avuto nel complesso effetti positivi sull’andamento dell’occupazione. È aumentata la propensione delle imprese ad assumere lavoratori a tempo indeterminato”. Beh, veramente dal Rapporto Istat non risulta. Lì c’è scritto che dei nuovi occupati degli ultimi due anni (2016 e 17) solo il 20% è a tempo indeterminato, e che in compenso il “lavoro in somministrazione” è aumentato del 23% in un anno e del 71 negli ultimi quattro. Probabilmente gli effetti saranno stati positivi per i profitti delle imprese, per i lavoratori non sembra.