Ashoda Mody: come uscire
dall’”Eurotragedia”
Già vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario, che ha lasciato per profondi dissensi, oggi a Princeton, studiando la storia della costruzione europea Mody si è convinto che “l’euro non era solo una cattiva idea economica, ma anche una cattiva idea politica”. Per evitare il peggio bisogna ripristinare un maggior grado di sovranità degli Stati
(pubblicato su MicroMega online il 28 gen 2019)
Il “dividendo dell’euro” non c’è mai stato. Si usa di solito quella formula per indicare quanto accadde nel primo periodo della moneta unica, più o meno i primi anni del secolo e fino alla crisi. Tassi bassi – quindi risparmi sul costo del debito – crescita discreta, inflazione moderata, disoccupazione vicino ai minimi. Ma, alla luce di ciò che dice Ashoda Mody, più che dall’euro tutto questo derivò da una congiuntura internazionale particolarmente favorevole, e dunque le cose sarebbero andate bene anche senza la moneta unica.
Mody è stato vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario, e in quella veste ha partecipato alla missione in Irlanda che varò gli aiuti dopo lo scoppio della crisi. Oggi insegna economia politica internazionale a Princeton, e ha scritto un libro il cui titolo (”Eurotragedia: un dramma in nove atti”) non lascia dubbi su come la pensi in proposito.
I nove atti sono quelli in cui Mody ha scandito la costruzione europea, che ha studiato fin dai suoi inizi. Dopo aver lasciato il Fondo monetario, anche per il profondo disaccordo con le ricette imposte dalla Troika, l’economista aveva pensato di scrivere un libro sulla storia della crisi, ma durante il lavoro ha sentito la necessità di andare più indietro nel tempo per esaminare la storia dell’Unione europea fin dalle sue origini, nel dopoguerra. “Ecco quando ho compreso che l’euro non era solo una cattiva idea economica, ma anche una cattiva idea politica”, ha detto in un’intervista. “Non solo era chiaro che avrebbe causato divisioni politiche, ma non c’era nemmeno alcun piano su come rimediare a queste divisioni, come reagire ad esse. Quindi è nata questa mitologia dell’euro, che lo ha trasfigurato in uno strumento di pace, un mezzo per unire gli europei, una necessità per il mercato unico. Tutti questi aspetti della mitologia sono nati sopra e intorno al progetto europeo per sostenere quella che è, effettivamente, un’idea insensata”.
L’illusione che la costruzione europea con la moneta unica funzionasse, afferma Mody, è stata dovuta al fatto che l’economia europea è molto dipendente dal commercio mondiale: se questo cresce, cresce anche l’Europa e quando frena rallenta con esso. E’ quanto è accaduto nei primi anni del secolo: in particolare, osserva l’economista, tra il 2004 e il 2007 il commercio mondiale è cresciuto a un ritmo tale che è difficile ricordare un periodo analogo. I dati sulla congiuntura di quest’ultimo periodo danno sostegno alla tesi di Mody: rallenta il commercio mondiale (anche per la “guerra dei dazi”) e l’economia europea subito ne risente.
Che la moneta unica fosse indispensabile, afferma l’economista, è appunto un mito: per avere un mercato unico non c’è alcun bisogno di un’unica moneta. Per esempio, tra la Germania e paesi come la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca ci sono fittissimi rapporti commerciali, nonostante che questi tre paesi siano fuori dall’euro.
Ma allora a che cosa è dovuto questo progetto? Mody sostiene che nella storia si verificano momenti critici in cui un uomo diventa eccezionalmente potente, e non solo riesce a guidare gli eventi, ma è anche in grado di “creare una narrazione, una favola, una mitologia”, che sono appunto quelle attuali dell’Unione europea: quell’uomo era Helmut Kohl. “Penso che se Kohl non fosse esistito, o se non fosse rimasto cancelliere negli anni ’90, non ci sarebbe stato l’euro”. Una conclusione francamente discutibile. E’ vero che Kohl ha praticamente trascinato il suo paese all’accettazione della moneta unica imponendosi, come raccontò in un’intervista al Financial Times, senza alcun riguardo per i processi democratici, seguendo i quali, disse, la rinuncia al marco non sarebbe stata accettata. Ma Mody sembra sottovalutare il ruolo decisivo avuto dalla Francia (in particolare da Mitterrand), convinta di imbrigliare la potenza tedesca togliendole il controllo esclusivo della banca centrale e della moneta. I “furbi” francesi, però, non si accorsero che stavano costruendo una Bce che sarebbe stata in pratica una fotocopia della Bundesbank e sottovalutarono la capacità di egemonia dei tedeschi, rafforzata dall’improvvido allargamento ad est a cui non si opposero né la Francia né i paesi mediterranei.
Mody insiste più volte sull’”insensatezza” della costruzione europea e delle sue “regole”, con una sola moneta che è troppo forte per i paesi più deboli e sottovalutata per la Germania e il suo “sistema”. E non mancano le critiche all’austerità: certo, se un paese ha vissuto al di sopra delle sue possibilità dovrà stringere la cinghia, ma il modo feroce con cui in Europa è stata applicata questa ricetta non può che aggravare il male, come ha dimostrato il caso della Grecia.
Ragionamenti che si applicano in particolare all’Italia, che Mody definisce “linea di faglia” del progetto europeo. Perché è un’economia grande, con seri problemi di produttività – che, afferma l’economista, è scesa del 10-15% da quando c’è l’euro – derivanti in parte anche dai suoi problemi interni e da politiche sbagliate. Ma comunque avrebbe bisogno di una moneta più debole, cosa evidentemente impossibile in questa situazione, e non certo del rigido controllo della spesa pubblica preteso da Bruxelles. E’ in una trappola, insomma, definizione che anche altri hanno usato e destinata purtroppo ad essere ripetuta, dato che non si vedono avvisaglie di cambiamenti.
Che si può fare? L’idea di uno Stato federale è morta, dice Mody. Non resta che ripristinare un maggior grado di sovranità degli Stati e darsi essenzialmente gli obiettivi di conservazione della pace e della democrazia e della promozione dei diritti umani. “Gli europei devono chiedersi se credono ancora in questi valori – i valori di una società aperta – e sono disposti a lavorare per realizzarli. Se non è questo lo scopo dell’Europa oggi, allora non mi è chiaro quale sia lo scopo dell’Europa”.