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 Lavoro Riduci

Come evitare le trappole
del salario minimo

Esiste in tanti paesi, ma nella situazione italiana può creare problemi. A meno di non arrivarci con una legge che regoli prima di tutto la verifica di quali sindacati – e quali associazioni datoriali – siano davvero rappresentative, cosa ormai non più rinviabile: a causa di una miriade di sindacati e associazioni di comodo è stata superata la mirabolante cifra di 900 contratti nazionali di lavoro

(pubblicato su Repubblica.it il 23 mar 2019)

Provate a chiedere a una persona qualunque quanti sono i contratti nazionali di lavoro. Ho fatto questo esperimento, mi hanno risposto una ventina. No, di più. Trenta? Quaranta? No, di più, molti di più. Cento? Duecento? Macché. Al Cnel, dove vengono registrati, dicono che ormai è stata superata la mirabolante cifra di novecento! E per di più il loro numero sembra destinato ad aumentare ancora: solo un paio d’anni fa erano circa 750.

E’ chiaro che c’è qualcosa che non va, anzi, più di qualcosa. Il fatto è che la grande maggioranza di questi contratti è una sorta di truffa, sono stipulati da sindacati di comodo e altrettanto improbabili associazioni padronali. Servono per eludere gli accordi fatti dai protagonisti tradizionali delle trattative sul lavoro, le associazioni imprenditoriali “storiche” – Confindustria, Confcommercio, ecc. – e i sindacati confederali e i pochi autonomi che hanno un’effettiva consistenza. Uno dei tanti espedienti per ridurre ulteriormente i salari e costruirsi rapporti di lavoro à la carte con lavoratori privi di potere contrattuale.

Un sistema per sfoltire questa giungla ci sarebbe, e non si capisce perché non venga attuato, dato che risolverebbe tanti problemi: migliore protezione dei lavoratori, più certezza nelle relazioni industriali e, con un paio di norme aggiuntive, potrebbe superare il dibattito tra favorevoli e contrari all’introduzione di un salario minimo legale.

Alla base ci dev’essere un riconoscimento certo che chi contratta sia effettivamente rappresentativo dei lavoratori e dei datori di lavoro. Si tratta di varare finalmente quella che nel linguaggio delle relazioni industriali si chiama “legge sulla rappresentanza”. Una legge che in passato i sindacati hanno osteggiato, soprattutto la Cisl, ostile a qualsiasi iniziativa che limitasse in qualsiasi modo la libertà contrattuale. Ma anche buona parte della Cgil considerava con diffidenza questa possibilità. In passato, perché è ormai parecchio tempo che la Cgil la chiede con una certa insistenza, e anche la Cisl ha ormai superato la sua tradizionale contrarietà.

Tra sindacati confederali e Confindustria si è infatti arrivati da tempo ad un accordo in proposito. La prima intesa importante risale addirittura al 2011, seguita da un Protocollo attuativo nel 2013 e infine dalla firma di un Testo unico sulla rappresentanza nel gennaio 2014. Del resto c’era poco da inventare: perché il bello è che per tutto il pubblico impiego – vale a dire oltre tre milioni di lavoratori – una legge sulla rappresentanza è in vigore da anni,  addirittura dal 1993, dovuta in buona parte all’impegno di Massimo D’Antona, il giurista assassinato dalle Brigate rosse nel 1999. E nessuno se n’è mai lamentato.

La rappresentatività viene misurata attraverso due canali. Il primo è il numero di tesserati, un dato non manipolabile perché in possesso dell’Inps. Il secondo è il numero di voti ottenuti nelle elezioni delle Rappresentanze sindacali unitarie(Rsu), elezioni a cui partecipano anche i lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Gli esiti delle votazioni sono raccolti dagli Uffici provinciali del lavoro, e dunque anche per la raccolta di questi dati non ci sono problemi. Infine – cosa mai accaduta prima – è prevista la verifica della rappresentatività anche per le associazioni datoriali.

Stabilito dunque chi ha diritto a contrattare e con quale peso, la legge dovrebbe sancire la validità generale dei contratti approvati dal 51% dei rappresentanti: è il cosiddetto “erga omnes”, ossia quelle condizioni contrattuali devono essere applicate a tutti i lavoratori di quel determinato settore, anche ai non iscritti ai sindacati e anche agli iscritti ai sindacati che sono rimasti in minoranza.

Il salario minimo nei paesi OcseIn Italia è molto alta la quota di lavoratori coperti dai contratti collettivi, si parla addirittura dell’85%. E per il 15% rimanente che si fa? Ecco, per quelli sarebbe plausibile l’introduzione di un salario mimo legale. Ma in realtà non ce ne sarebbe bisogno neanche in quel caso. Basterebbe che nella legge sulla rappresentanza fosse aggiunto un comma con cui si fa obbligo a chiunque stabilisca un rapporto di lavoro, di qualsiasi tipo, di fare riferimento ad uno dei contratti collettivi esistenti, quello del settore a cui la prestazione di lavoro è più assimilabile: si ricadrebbe così nel minimo contrattuale stabilito per quel settore. Si eviterebbe così anche il problema dell’aggiornamento nel tempo del salario minimo legale, aspetto da non sottovalutare. C’è poi chi fa notare che nei progetti di legge attualmente presentati si parla di un minimo orario, ma senza specificare se comprenda o meno le voci differite del salario (ferie, Tfr, tredicesima, ecc.): fanno una differenza non da poco, almeno il 30% e in alcuni casi anche il 40. Non precisare questo aspetto darebbe sicuramente origine a una miriade di contenziosi legali. Anche questo verrebbe superato se ci si riferisse a un salario minimo contrattuale.

I tempi per il varo della legge sulla rappresentanza sono senz’altro maturi. Come si è detto, risolverebbe molti problemi, dal disboscamento della giungla contrattuale alla questione del salario minimo. Ma c’è un ostacolo. Il salario minimo legale è una formula dal forte appeal politico-mediatico, mentre parlare di legge sulla rappresentanza dà l’impressione di occuparsi di qualcosa che riguarda solo i sindacati: l’appeal è meno di zero. In questi tempi di politica-spettacolo, in cui la comunicazione è affidata alle due frasi sincopate che stanno in un tweet, ci vorrebbe un po’ di coraggio per rinunciare al titolo di un provvedimento di alto valore propagandistico per impegnarsi su una legge più difficile da “vendere” agli elettori. Bisognerebbe pensare a che cosa è meglio per il paese invece che a come massimizzare il proprio tornaconto elettorale. Una scelta che da moltissimi anni ha imboccato invariabilmente la seconda strada.


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