I due veri motivi
della sconfitta di Corbyn
E’ la Brexit, una battaglia che il Labour non poteva combattere, il motivo principale dell’esito elettorale. Quasi tutti o collegi passati ai Tory avevano una maggioranza di Leave. Ma c’è anche un altro motivo: la vecchia guardia blairiana non ha mai accettato il ritorno a un programma socialdemocratico, che ha invece entusiasmato giovani e militanti
(pubblicato su Repubblica.it il 14 dic 2012)
Tutti contenti, i finti progressisti nostrani, per la sconfitta del Labour di Jeremy Corbyn. Avesse vinto, con quel programma di sinistra vera, avrebbero dovuto ammettere che hanno sbagliato tutto nella vita (politica). Così, invece, possono dire che l’”estrema sinistra” è inevitabilmente perdente, e continuare a trascinare l’agonia di quei partiti che una volta rappresentavano quasi metà del paese, e adesso se va bene un quinto.
Il fatto è che la sinistra di Corbyn non è “estrema”, è socialdemocratica, mentre gli altri non lo sono più. E che ha perso per ben altri motivi, che non vede solo chi non li vuole vedere.
Il motivo decisivo è stato la Brexit. Una jattura per il Labour, che si è trovato nell’impossibilità di prendere una posizione netta. Doveva forse schierarsi a favore di una battaglia lanciata dalla destra? Ai tempo del referendum si è schierato per il remain, ma in modo tiepido. “Non sono anti-europeo, ma questa Europa non mi piace”, ha detto Corbyn. E non è quello che qui in Italia dicono quasi tutti? Difficile mettersi con entusiasmo a difendere l’appartenenza a una Unione che ha fatto dell’ordoliberismo tedesco la sua religione. Quando poi si è capito che il remain era minoritario nel paese, assai più di quanto non mostrassero i sondaggi, farne una bandiera non avrebbe avuto senso. Così Corbyn si è dovuto arrampicare sugli specchi, inventare fumose soluzioni intermedie per differenziarsi dal Tories. Ma le proposte fumose non portano voti, soprattutto quando l’opinione pubblica si schiera sempre più chiaramente per l’uscita. E il segnale si è avuto alle ultime elezioni europee, in cui il Brexit party messo su in quattro e quattr’otto da Neil Farage, ha ottenuto uno strabiliante 30,75%, risultando di gran lunga il primo partito. Davanti a chi? Ai liberali, quelli del remain, col 19,76. E da dove venivano questi voti? Ma dai laburisti e dai conservatori, naturalmente, che hanno ottenuto i primi il 13,72, gli altri adirittura l’8,85%, superati pure dai verdi.
Il voto europeo si era diviso principalmente tra brexiters e remainers, e si era visto chi aveva più munizioni. In queste, che erano elezioni politiche e con un leader conservatore da sempre scatenato sulla Brexit, tutti quei voti si sono concentrati su di lui; il Brexit party non ha eletto neanche un deputato.
Chi non ne fosse ancora convinto può dare un’occhiata a questo grafico, postato su Twitter dal docente di public policy allo London School Valentino Larcinese.
Inutile sforzarsi di leggere i nomi dei collegi, basta il colpo d’occhio. A destra della linee verticali i collegi con maggioranza di Leave (cioè Brexit) nel referendum; nel grafico di destra i collegi che in queste elezioni i Conservatori hanno strappato ai Laburisti: tutti tranne uno con una maggioranza di Leave. Può bastare?
Sempre su Twitter, ha osservato Stefano Fassina: “La drammatica sconfitta del Labour è tutta spiegata dai collegi dei labour leavers: operai colpiti dal “libero mercato” europeo e globale hanno scelto i combattenti pro Brexit in alternativa alla sinistra rimasta cosmopolita e di fatto no-Brexit, nonostante Jeremy Corbyn”.
Già, perché c’è un secondo motivo della sconfitta del Labour, e cioè il blairismo che non muore. Nel Regno Unito i parlamentari sono molto legati ai collegi, e la grande maggioranza di loro è ancora espressione della politica della “Terza via” (quella, appunto, lanciata da Tony Blair), che ha sostituito il liberismo al socialismo. Corbyn riuscì a diventare segretario grazie a una riforma statutaria fatta dal suo predecessore, Ed Miliband, che toglieva peso al gruppo parlamentare a favore della base e dei sindacati. Poco dopo fu sfiduciato dai parlamentari, ma rieletto a furor di popolo. E nelle politiche del 2017 aveva portato il Labour al 40% (i sondaggi di qualche mese prima lo davano al 25) a un’incollatura dal 42,5 dei Tories. I deputati sono rimasti senza armi, ma continuando a non sopportare lui e ancor meno il suo programma. Qualche mese fa alcuni di loro hanno fatto una scissione, i primi sondaggi dopo la quale davano il Labour in calo vertiginoso con gli scissionisti a poca distanza. Ma poco dopo il partito che questi ultimi avevano tentato di lanciare si è sciolto come neve al sole.
Per queste elezioni Corbyn ha presentato un programma giudicato, appunto, “estremista” da quelli che la pensano in quel modo. La parte sull’occupazione era opera di un gruppo di studio guidato da Robert Skydelsky, famoso economista e biografo di Keynes. Ma si può immaginare con quale entusiasmo l’abbiano presentato nei loro collegi i candidati, ancora in maggioranza blairiani. Non solo, quindi, la trappola del problema Brexit, ma anche la guerra interna di una vecchia guardia che non ha mai digerito il ritorno a un programma socialdemocratico.
Eppure, grazie a quel programma, il Labour prende oltre il 60% dei voti di chi è sotto i 30 anni. Ha raggiunto i 400.000 iscritti, in gran parte dell’era Corbyn; ha un numero di attivisti come non si vedeva da tempo. Se il partito ha qualche speranza di tornare a vincere in futuro, è solo se non abbandonerà questa linea anche dopo che Corbyn avrà lasciato.