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 Stato sociale Riduci

La privatizzazione cattolica
del welfare

Renzi ha annunciato che sta preparando una legge delega sul Terzo settore e ne ha diffuso le linee guida, da cui si desume che l’intenzione è di favorire il “privato sociale” rispetto alle strutture pubbliche. I censimenti 2001 e 2011 dicono che lo Stato è già in netto arretramento e questa legge potrebbe affossare definitivamente le strutture pubbliche

(pubblicato su Repubblica.it il 13 mag 14)

La strategia l’aveva indicata 17 anni fa Giorgio Vittadini, all’epoca presidente della Compagnia delle opere, braccio operativo di Comunione e Liberazione, nel suo libro “Il non profit dimezzato”. Lo Stato, diceva Vittadini, deve ritirarsi dalla gestione diretta dei servizi sociali, deve limitarsi a finanziare e controllare. La gestione, invece, dev’essere affidata al “privato sociale”, definizione preferita a Terzo settore (che fa pensare a qualcosa di residuale) o a non profit, perché le imprese sociali i profitti vogliono farli, solo che non li ridistribuiscono. Lo Stato è burocratico, ottuso, lontano dalla vita reale dei cittadini, incapace di percepire i nuovi bisogni. Il privato sociale (o “economia civile”, secondo la definizione di un altro teorizzatore di questa materia, Stefano Zamagni) è invece in grado di garantire una qualità superiore, grazie alla motivazione di chi ci lavora. Questa affermazione è posta come un assioma, cioè “una verità evidente che non si dimostra”, e peggio per chi non ci crede.

A leggere le “Linee guida per una riforma del Terzo settore” che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha diffuso per sottoporle a discussione si ha la netta impressione che si tratti esattamente della trasposizione delle idee di Vittadini in quella che sarà la proposta di legge delega. “Lo chiamano terzo settore - vi si legge - ma in Matteo Renzirealtà è il primo. Un settore che si colloca tra lo Stato e il mercato, tra la finanza e l’etica, tra l’impresa e la cooperazione, tra l’economia e l’ecologia, che dà forma e sostanza ai principi costituzionali della solidarietà e della sussidiarietà. E che alimenta quei beni relazionali che, soprattutto nei momenti di crisi, sostengono la coesione sociale e contrastano le tendenze verso la frammentazione e disgregazione del senso di appartenenza alla comunità nazionale”. E allora ci si può magari ricordare che qualcuno dei più stretti collaboratori di Renzi è proprio di Comunione e Liberazione, come del resto anche il ministro Maurizio Lupi, che dopo Alfano è il più importante rappresentante dell’Ncd nel governo.

Cosa c’è che non va in questa visione? Due cose. La prima è quella più importante. Le “imprese sociali”, come spiegano i loro stessi esponenti, sono imprese e quindi tra i loro scopi c’è quello del profitto. Non entriamo neanche nel discorso se questo sia il loro scopo principale oppure se – come si afferma – non prevale comunque sull’obiettivo di garantire la qualità dei servizi. Anche dando per scontato ciò che scontato non è (quantomeno non sempre, non in tutti i casi), basta la prima parte del discorso. Le imprese sociali devono fare profitti, lo Stato no. Ciò significa che, a parità di servizio offerto, quello delle imprese sociali costerà di più. La replica è che ciò non avviene perché queste imprese sono più efficienti. Davvero? E quando è stata dimostrata questa affermazione? O per “più efficienti” si intende che pagano di meno i loro dipendenti, che sarebbero contenti così perché sono motivati al servizio? In realtà, da alcune inchieste fatte sui dipendenti delle cooperative che molti ospedali usano in luogo dell’assunzione diretta di personale è risultato che costoro lavorano per le cooperative solo perché non trovano di meglio. Non solo, ma mentre le loro retribuzioni sono inferiori a quelle corrispondenti dei dipendenti pubblici, il costo per gli enti appaltanti è superiore a quello che avrebbero avuto assumendo direttamente. Chissà dove finisce la differenza…

La seconda cosa che non va è che questo mondo è egemonizzato dalle organizzazioni cattoliche, Comunione e Liberazione davanti a tutte. Stiamo parlando di settori come istruzione, sanità, assistenza, cultura, servizi al lavoro e ricreativi. E di cattolici che, in grande maggioranza, mettono le prescrizioni della loro fede al di sopra delle leggi dello Stato. Vogliamo dargli in mano la sanità? Certo, risolveremmo i dibattiti su procreazione assistita, interruzioni di gravidanza, testamento biologico e altre piccolezze del genere, perché semplicemente non se ne parlerebbe più. Vogliamo che una parte ancora più grande della scuola diventi a orientamento confessionale? Perché questa è l’inevitabile conclusione.

A questo proposito è un piccolo capolavoro il punto 8 del capitolo “Valorizzare il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale”, che recita: “introduzione di incentivi per la libera scelta dell’utente a favore delle imprese sociali mediante deduzioni o detrazioni fiscali oppure mediante voucher”. La “libera scelta” va “incentivata”? Ma allora non è più libera, è guidata dalla convenienza. E quanto alla detassazione, è quella che i tecnici chiamano tax expenditure, che è semplicemente un modo diverso di finanziamento pubblico. A parte i problemi costituzionali  (“senza oneri per lo Stato”, articolo 33), Renzi ci sta dicendo che vuole rendere più conveniente ricorrere alle strutture private piuttosto che a quelle pubbliche. Le quali, se perdono utenti, verranno via via ridimensionate, destinate a un circolo vizioso tale da provocare un‘agonia non si sa quanto lenta.

Non sembri un’affermazione esagerata, perché di fatto questo processo è già in atto. Non dimentichiamo che da tempo il settore delle “imprese sociali” gode di facilitazioni fiscali, esenzioni, finanziamenti. Trascriviamo qui i dati tratti da un articolo di Attilio Pasetto, che ha confrontato i censimenti Istat dell’industria e dei servizi del 2001 e del 2011: “Le istituzioni pubbliche sono diminuite in dieci anni del 21,8% in termini di unità e dell’11,5% come addetti, a fronte di aumenti, rispettivamente, del 28% e del 39,3% delle istituzioni non profit. Le imprese private sono anch’esse cresciute, anche se più modestamente (l’8,4% come unità e il 4,5% come addetti). I due fenomeni speculari – arretramento della p.a. e crescita del non profit – si colgono in maniera evidente nel sistema di welfare. Nel settore dell’istruzione le istituzioni non profit contano nel 2011 per il 13,1% in termini di addetti, con un aumento del 76,3% rispetto al 2001. Il ruolo della p.a. rimane preponderante, con l’81,5%, ma in calo del 10,3% sul 2001. Nella sanità e assistenza sociale il non profit ha un peso molto alto, pari al 24%, con una crescita in dieci anni del 47,2%, a fronte di un peso della p.a. sceso al 43,5% per effetto di un calo dell’8,6%. Occorre aggiungere che in entrambi i settori cresce anche il ruolo delle imprese private, con incrementi dal 2001 al 2011 del 21,9% nell’istruzione e del 40% nella sanità. In quest’ultimo comparto il peso delle imprese private raggiunge ora il 32,5%”.

Si è fatto un referendum per mantenere pubblica la gestione dell’acqua. Ma la privatizzazione del welfare nel frattempo sta avanzando a passi da gigante, e la legge delega annunciata da Renzi, con i suoi ulteriori incentivi e detassazioni, le metterebbe il turbo. E’ quello che vogliamo?

PS - Mi è stata segnalata questa dichiarazione del segretario confederale della Cisl Pietro Cerrito: "Questa novità della consultazione diretta ai cittadini non risolve alcuni problemi di fondo che sono legati all'uso che si fa spesso impropriamente delle persone impiegate nel Terzo Settore. Noi dobbiamo tendere ad una legge che regolamenti gli accessi ai lavori che possono essere accolti dal Terzo Settore, che incentivi la sussidiarietà ed impedisca forme di lavoro nero che troppo spesso si nascondono proprio in questo ambito". Bisogna che la riforma "affermi la trasparenza, combatta il sotto salario e il lavoro nero mascherato". Come si vede anche il sindacato è cosciente del fatto che nel Terzo settore ci sono parecchie cose che non vanno.


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