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 Politica

L'accordo del disaccordo 

Sosterremo l'accordo, ha dichiarato Guglielmo Epifani, ma questa è la fine della concertazione. Un altro colpo che allontana il governo Prodi dalla sua area di riferimento. Non è la conseguenza di un'incapacità di comunicazione o di governo, ma di un assetto istituzionale da cambiare

(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 27 lug 2007)

Se il fondo di prima pagina del quotidiano della Confindustria esprime tutto il suo sollievo per la “totale conferma” della legge 30, propagandisticamente chiamata “legge Biagi”, forse Guglielmo Epifani qualche ragione di essere arrabbiato col governo ce l’ha. Epifani ha già detto che firmerà l’accordo che elimina lo "scalone" previdenziale e prevede varie altre cose e lo sosterrà di fronte ai lavoratori, ma lo considera una pietra tombale sulla concertazione. D’ora in poi questo non è più un governo “amico”: da settembre, ha detto in un’intervista a La Repubblica, “il confronto sarà assolutamente forte e serrato”. Ieri Prodi ha tentato un gesto di pacificazione, con una lettera al segretario della Cgil in cui afferma che “la concertazione non finisce qui. Anzi, essa ha ripreso nuovo vigore da questa esperienza che vogliamo continuare a condividere con voi e con le altre organizzazioni sociali". Ma se il presidente del Consiglio vuole davvero ricucire il rapporto, non basteranno certo alcune frasi amichevoli.

La rottura con la Cgil acuisce il progressivo straniamento del governo rispetto all’area politica di cui dovrebbe essere espressione. Non si può dire che questo esecutivo non abbia concluso nulla, no di certo. Anzi, pur tra le continue difficoltà provocate da una coalizione rissosa come poche si ricordano, e dall’essere sempre sul filo del rasoio nelle votazioni al Senato, sono stati varati numerosi provvedimenti anche di notevole peso politico.

Nessuno di essi, però, è mai riuscito a strappare l’applauso. Anche quando si distribuisce invece di prelevare, persino i beneficiati non mostrano eccessiva soddisfazione (e figuriamoci tutti gli altri). Sostenere che l’essenza del problema stia in una carenza di comunicazione significherebbe cercare di cavarsela con poco. No, il problema deriva in parte dalla situazione, e in parte ancora maggiore dall’assetto istituzionale. Il difetto della situazione è di essere “normale”: non c’è un’emergenza da affrontare, come la crisi del ’92 o come lo sforzo per entrare nell’euro, e si sa che le emergenze compattano e rendono più facili le decisioni anche impopolari.

Ma ancor più rilievo ha certamente l’aspetto istituzionale. La coalizione è una sorta di grande partito all’americana, che si estende dai trotzkisti agli iperliberisti alla Capezzone, dai laici agli integralisti dell’Opus Dei. Solo che in America, poi, governa il presidente, una sorta di monarca a termine che può fare quasi tutto ciò che vuole. Qui, invece, qualsiasi provvedimento è nelle mani del senatore De Gregorio, o di Franco Turigliatto, o di Paola Binetti, o magari di Helga Thaler Ausserhofer, una dei due senatori della Svp.

L’azione di governo, allora, non è il risultato di una strategia comune su cui tutta la coalizione si ritrova. E’ una composta di provvedimenti che, dopo aver dato un colpo al cerchio delle sinistre, subito ne deve dare un altro alla botte dei liberisti. E siccome le componenti da accontentare sono tante, provvedimenti fondamentali come la Finanziaria, il Dpef o anche quest’ultimo accordo accontenteranno in piccola parte ogni componente, scontentandole tutte per il complesso del provvedimento.

La riforma del sistema elettorale non può fare miracoli, ma certo una situazione così disastrata può migliorarla. C’è ancora un anno di tempo, prima che venga fatta via referendum.


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