Metti una sera Walter e Silvio...
La riforma elettorale e i possibili scenari. Gli attori, la possibile sorte del governo, le varie ipotesi di cambiamento del meccanismo elettorale. Il dialogo fra Veltroni e Belusconi poggia su una oggettiva convergenza di interessi
(7 dic 2007)
Era dai tempi della discesa in campo di Berlusconi che il quadro politico non era così effervescente e così difficili da prevedere gli esiti che ne seguiranno. L’alleanza di destra si è disfatta, quella di sinistra perde i pezzi, è nato il Partito democratico con un leader popolare come Walter Veltroni, il governo Prodi è sempre sul filo della crisi, ora Fausto Bertinotti ha dichiarato fallita l’esperienza di alleanza del centro sinistra. Ci sarebbe anche il Partito del popolo di Berlusconi, ma è difficile considerare una novità quello che appare un semplice travestimento di Forza Italia. Tutto intorno si agitano partitini, gruppuscoli, singoli senatori (la Camera, dove la maggioranza non dipende da uno o due voti, sembra immune da crisi di coscienza) nel tentativo di sopravvivere all’ordalia che inevitabilmente si avvicina: la riforma del sistema elettorale.
Tutti sanno che il meccanismo che verrà deciso determinerà non solo quante, ma anche quali delle attuali formazioni politiche saranno presenti nel prossimo Parlamento. Un sistema tedesco con lo sbarramento al 4% forse salva la Lega, al 5% forse no; un sistema che consideri lo sbarramento a livello nazionale spazza via almeno i due terzi dei partiti attuali, ma se con un colpo d’astuzia si salva chi supera il limite a livello di collegi ecco che rientrano in gioco quelle mini-formazioni che, pur raccogliendo lo zero-virgola-qualcosa dei voti complessivi, hanno delle zone di insediamento dove sono relativamente forti: l’Udeur di Mastella, tanto per fare un esempio (ma, in questa ipotesi, anche l’assoluta tranquillità per la Lega).
Si discute di sistema bipolare, maggioritario o proporzionale, ma queste formule significano poco se non è chiaro il disegno complessivo. Rileva, per esempio, se si decide che ci si debba presentare alle elezioni dichiarando da prima quale sarà l’eventuale maggioranza di governo, oppure – come mostra di preferire Veltroni – se la maggioranza si forma dopo il voto, come nella Prima Repubblica. E’ chiaro che in questo secondo caso aumenta il potere dei partiti rispetto a un sistema che ponga la scelta diretta nelle mani dell’elettorato. Ma quale delle due strade sia la migliore, ai fini della governabilità del paese e anche della coerenza de programma di governo, è materia del tutto opinabile. E si potrebbe anche osservare che un partito rappresenta la volontà del suo elettore assai meglio che una coalizione, inevitabilmente costretta a compromessi di vario tipo.
Per capire come evolverà questa situazione bisognerebbe stare nella testa dei protagonisti: sapere che cosa realmente pensino, al di là di quello che dicono (le due cose, ovviamente, possono non coincidere). Si può provare però a disegnare alcuni scenari, sulla base degli interessi e delle possibilità oggettive delle varie parti.
I partitini. Quelli del centro destra, al momento, non possono fare altro che stare a guardare, e sperare che la situazione si evolva in modo tale da rimetterli in gioco. Quelli di sinistra e centro sinistra, invece, hanno una carta in più: possono far cadere il governo. A che servirebbe? Se portasse a elezioni anticipate, bloccherebbe il referendum maggioritario, il loro più grande spauracchio. Se non altro, farebbe guadagnare loro un altro paio d’anni di vita. Se portasse a elezioni anticipate: non è affatto detto, anzi, è poco probabile. Innanzitutto perché il presidente Giorgio Napolitano ha già detto che prima di votare di nuovo bisogna cambiare la legge elettorale, e dunque farebbe quanto in suo potere per favorire la formazione di un altro governo (tecnico, grande coalizione o qualsiasi formula si rivelasse possibile). Certo, Napolitano non potrebbe imporre la formazione di un governo se le forze politiche – per lo meno le maggiori – si dichiarassero assolutamente indisponibili. Ma non sembra questa l’aria, e anzi si può ipotizzare che i partiti maggiori la vedano in tutt’altro modo. Nelle mani dei vari Mastella, dunque, c’è una pistola scarica, o meglio una pistola che può sparare ad un solo bersaglio: il governo Prodi. Ma serve più per minacciare che per altro: se davvero facessero partire il colpo, non ne ricaverebbero nessun vantaggio.
Prodi. Il presidente del Consiglio, com’è ovvio, vuol far durare il governo e per questo spende grandi energie nelle mediazioni tra i suoi rissosi alleati. Potrebbe essere tentato – c’è chi gli attribuisce questa intenzione – di mettersi di traverso per ritardare il più possibile la riforma, alzando la posta verso un completo ridisegno delle istituzioni. Più carne c’è al fuoco, più ci vuole per cucinarla, specie quando i cuochi hanno idee diverse su molte ricette. Intanto il referendum si avvicina, e si sa che a Prodi quella soluzione non dispiace. Oppure potrebbe seguire un’altra strada: ai partitini che minacciano la crisi potrebbe semplicemente dire che non dipende da lui fare o non fare la riforma elettorale, e di che tipo. Lui governa, la riforma spetta ai partiti e al Parlamento. Una posizione di questo genere, indipendentemente dal tipo di accordo che si potrebbe trovare, potrebbe portarlo fino al 2009, che è il tempo massimo da tutti pronosticato per la legislatura, quando si abbinerebbero le elezioni politiche a quelle europee.
I partiti medi. An, Udc, Rifondazione e la Cosa Rossa (se riusciranno ad accordarsi, oltre che sul simbolo, anche sul partito da costruire) non sembrano al momento avere una strategia ben definita. I due del centro destra oscillano tra polemiche feroci con Berlusconi, che sta tentando di risucchiare i loro partiti dal basso, e l’esigenza di non chiudere del tutto le possibilità di un’alleanza, che, a seconda di come evolverà la situazione, potrebbe comunque essere necessaria. Il sistema tedesco sarebbe la loro salvezza, meglio ancora senza dover formare prima la coalizione, come preferisce anche Veltroni. In quel caso, potrebbe anche vedere la luce il partito centrista di Pezzotta e (forse) Montezemolo. Ma in questa fase non hanno la forza di condizionare come vorrebbero l’evolversi degli eventi. Quanto alla Cosa Rossa, le recenti esternazioni di Bertinotti sembrano delineare un futuro di partito d’opposizione, senza più coinvolgimenti governativi. Nella galassia, di certo, molti non sono per nulla d’accordo con questa prospettiva, ma certo Rifondazione è quella che ha i numeri più grossi.
Veltroni e Berlusconi. Rappresentano i due partiti maggiori e sono i candidati leader per la prossima legislatura (il primo di sicuro, il secondo è ancora quello che ha più probabilità nel centro destra). Fallita la “spallata” al governo Prodi, Berlusconi si è adattato a trattare sulla riforma elettorale, rinunciando anche alla pregiudiziale di andare al voto appena trovato un accordo. In realtà Berlusconi sa che il leader del Pd è impaziente quasi quanto lui, anche se è improbabile che si comporti slealmente nei confronti di Prodi, e conta su questo. Al momento i due leader sembrano sulla strada di un accordo per arrivare a un sistema di tipo tedesco (quindi, proporzionale con sbarramento), modificato in modo da dare un modesto premio di maggioranza ai partiti più forti (tra il 4 e il 6%) e una ancor più modesta penalizzazione (un paio di punti) ai partiti intermedi. Sarebbe probabilmente senza dichiarare prima la coalizione: proprio l’esperienza tedesca ha mostrato che quando si segue quella via, lo svantaggio è dei partiti maggiori, perché gli alleati sono comunque garantiti. Ma di tutte le altre tecnicalità che alla fine fanno la differenza, ancora si sa poco o nulla.
Questo è ciò che Veltroni e Berlusconi, al momento, dicono di voler fare. Se però si guarda a quelli che teoricamente sarebbero i loro interessi oggettivi, lo scenario cambia radicalmente. Ai due maggiori partiti, proprio perché sono i più grossi e accreditati di percentuali di consenso abbastanza simili, converrebbe assai di più il sistema che deriverebbe dal successo del referendum: un sistema all’inglese, che abolisce del tutto le coalizioni e attribuisce un forte premio di maggioranza al partito che prende più seggi. In pratica, chi vince, anche solo con una maggioranza relativa, poi governa, anche da solo, se vuole. E si vince anche con il 25 % dei voti, se nessun altro arriva al 25,1. E’ evidente quanto possa essere forte la tentazione di risolvere, in un colpo solo, tutti i problemi di alleanze, accordi, mediazioni estenuanti, caccia alle formazioni anche piccolissime, perché, come si è visto l’ultima volta, 24.000 voti hanno deciso la vitttoria.
C’è chi sostiene che quest’ultima fatica non sarebbe evitata, perché ognuno tenterebbe di allargare i suoi sostenitori il più possibile, dato che una manciata di voti può essere determinante. Può darsi. Ma ci sarebbe probabilmente una differenza sostanziale. I due leader punterebbero all’arruolamento all’interno dei rispettivi partiti, il che è ben diverso dal dover fare i conti con una coalizione. E chi non accetta la linea del partito resta fuori, al freddo. Non sarebbe strano se Walter e Silvio stringessero un patto per tagliar fuori chi non accettasse di allinearsi. Poi al voto, e vince chi ne prende uno in più. Un rischio, ma varrebbe la pena di correrlo: per Berlusconi perché per lui è l’ultima chance, le prossime elezioni sono plausibilmente le ultime a cui potrà presentarsi; per Veltroni per il motivo opposto: essendo relativamente giovane, può anche perdere una volta.
Se fosse vero questo scenario, assisteremo a una trattativa che si prolunga, fino a che il referendum non è più evitabile; il governo non cade, o, se malauguratamente dovesse succedere, se ne fa un altro per guadagnare tempo, fino ad arrivare al referendum, E se il referendum fallisce? Beh, in quel caso c’è sempre tempo di tornare a parlare di sistema tedesco. Con modifiche all’italiana, naturalmente.