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 Politica Riduci

Né di sinistra, né di destra. Né presentabile

Sono in molti a insistere che le forze politiche maggiori dovrebbero accordarsi su una serie di obiettivi che non sarebbero "né di destra, né di sinistra", ma indispensabili per il paese. Nel dibattito teorico vengono spesso introdotti elementi di confusione, ma è invece chiaro l'obiettivo pratico di una parte dei ceti dirigenti: dopo le elezioni, una "grande coalizione" che faccia una politica liberista

(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 13 mar 2008)

Prima è stato dichiarato morto il comunismo, poi il socialismo, poi la socialdemocrazia. La nuova frontiera, oggi, consiste nel dichiarare obsoleta la distinzione fra destra e sinistra, perché in fondo ci sarebbe un solo modo “giusto” di governare e basta essere persone sensate e di buona volontà per trovare un punto d’incontro su quello che è necessario fare.

 

Prima di continuare bisogna forse ricordare un fatto. Nella maggior parte dei casi sono le idee ad essere al servizio degli obiettivi che ci si propongono, e non viceversa come ci insegnavano a scuola. Oggi l’obiettivo di una larga parte dei ceti dirigenti è ottenere alcune riforme in senso liberista e antistatalista e di ridurre le garanzie, considerate eccessive, nel mondo del lavoro. Intorno a questi obiettivi si esercitano i nuovi “intellettuali organici”, che hanno il compito di spiegare che le cose non sono come sembrano, ma proprio all’opposto: che conservare garanzie faticosamente conquistate è, appunto, da “conservatori”. Un liberista integralista come il professor Alberto Alesina ha scritto persino un libro per sostenere che competizione, concorrenza e riduzione del ruolo dello Stato sono le vere, nuove idee “di sinistra” (ma come, non era obsoleto il concetto di sinistra?).

 

Poi c’è la competizione sul mercato politico, specie ora che le elezioni sono alle porte. Il Partito democratico di Walter Veltroni, partito in forte svantaggio, ha evidentemente puntato a recuperare quella parte dell’elettorato che vorrebbe un governo moderato, ma non si fida della destra indecente e inconcludente di Silvio Berlusconi. Non in altro modo si possono spiegare le candidature di persone come il giuslavorista Pietro Ichino, alfiere della battaglia contro l’articolo 18, e l’ex leader degli imprenditori veneti e “falco” delle Federmeccanica Massimo Calearo, tra le cui prime dichiarazioni da candidato si segnala quella di sollievo per la caduta del governo Prodi. Non in altro modo si può spiegare che Veltroni in un’intervista al Pais abbia tenuto a precisare che il Pd non è un partito di sinistra, ma riformista, termine buono per tutte le politiche. A fidarsi dei sondaggi sembra che il recupero stia riuscendo, Resta da vedere, ove il Pd riuscisse a vincere, in che cosa si sostanzierebbe il riformismo del suo governo. Non sono le parole, che spaventano, specie in campagna elettorale. Ma poi si passa ai fatti, e allora bisogna fare delle scelte che non sono mai neutrali.

 

Ma torniamo al dibattito su destra e sinistra, in cui tra gli altri sono recentemente intervenuti (su Repubblica) due intellettuali di livello europeo come Antony Giddens e Marc Lazar. In entrambi i casi nel definire che cosa genericamente è “di sinistra” si fa riferimento anche a fattori culturali come le istanze di tipo libertario e l’attenzione ell’evoluzione dei costumi, mentre la destra viene identificata – tra l’altro – con una certa maggiore rigidità morale e con il tradizionalismo culturale. Ebbene, può darsi che di fatto – qui ed ora – le cose stiano effettivamente in questo modo, ma dal punto di vista analitico e generale questo tipo di osservazione appare del tutto sbagliato. Le persone si dividono rispetto a un certo numero di discriminanti: l’atteggiamento di fronte alla religione; o di fronte alla morale; o di fronte ai problemi ambientali; o di fronte ai problemi economici (naturalmente si potrebbe continuare). Se si vuole mantenere un significato al concetto di “sinistra”, è solo a questi ultimi che bisogna guardare, perché allargando il campo si entra in un terreno in cui tutto si confonde.

 

Non è affatto vero che le istanze libertarie e a favore dei diritti civili siano una caratteristica della sinistra. In Italia, per esempio, i più accaniti e coerenti sostenitori di queste istanze sono da almeno mezzo secolo i Radicali, figli senza alcun dubbio della cultura liberale. Non è un caso che nella scorsa legislatura avessero aderito al Polo berlusconiano (e una parte di loro tuttora vi alberga). Nemmeno l’atteggiamento di fronte alla religione organizzata può essere considerato un elemento essenziale dell’essere di sinistra. Personaggi di destra come De Gaulle e Giscard non assomigliano di certo ai nostri baciapile, e in Italia abbiamo avuto i cattolici comunisti e quelli reazionari, e nello stesso Pd coesistono cattolici laici come Rosy Bindi, Paolo Gentiloni e Livia Turco e cattolici-col-cilicio come Paola Binetti e Luigi Bobba. D’altronde, quale personaggio politico più di Amintore Fanfani ha rappresentato il conservatorismo morale e l’integralismo cattolico? Eppure, la sua riforma agraria è stata forse la riforma più “di sinistra” che sia mai stata fatta in Italia e il suo “Piano casa” è l’ultimo provvedimento organico in materia che si ricordi. Analoghi discorsi si potrebbero fare per l’ambientalismo. In questi casi si può parlare forse di progressismo e conservatorismo (un progressista non è necessariamente di sinistra; un conservatore può non essere di destra), di maggiore o minore apertura mentale e disponibilità al nuovo, di maggiore o minore tolleranza: tutti aspetti che non sono specifici dell’essere di destra o di sinistra.

 

E’ nella concezione dell’organizzazione sociale e dell’economia in particolare, invece, che si può trovare il vero discrimine tra destra e sinistra. E’ un discrimine, per esempio, privilegiare la competizione sociale anche a costo del rischio di far trovare le persone in situazioni di gravi difficoltà. E’ un discrimine porsi il problema dell’equità sociale, ossia cercare di mitigare il livello di disuguaglianza. E’ un discrimine tentare di ridurre l’area dei diritti civili (alla salute, all’istruzione, alla previdenza) in nome del fatto che ognuno debba “prendersi le proprie responsabilità”, e quindi in sostanza cavarsela quanto più possibile da solo. E’ un discrimine – ma qui molti non saranno d’accordo – sostenere che l’area del welfare va ridotta per lasciare spazio ad attività volontarie in favore del prossimo e alla generosità collettiva.

 

In un mondo in cui, mentre aumenta enormemente la ricchezza globale, si spiega ai lavoratori dei paesi di più antico sviluppo che l’età dell’oro è finita e che i figli staranno peggio dei padri, che bisogna rinunciare a sicurezze (sempre relative) e garanzie pena la bancarotta dell’industria e del paese, in un mondo di questo genere certo ha senso proclamare che la distinzione fra destra e sinistra è sorpassata. Ma un senso, però, molto preciso: un senso di destra.

 

Tutti questi discorsi teorico-culturali, nella situazione italiana attuale, mirano a un obiettivo niente affatto teorico. Le prossime elezioni, fatte di nuovo con il “porcellum”, non danno alcuna garanzia che dalle urne esca una maggioranza con numeri sufficienti per costituire un governo stabile. E se anche questa maggioranza ci fosse e andasse allo schieramento di destra, Berlusconi ha già fornito ampie prove, nella legislatura che ha guidato, di essere assolutamente incapace (o di non avere alcuna volontà, il risultato non cambia) di attuare il programma ritenuto necessario da quella parte dei ceti dirigenti di cui si diceva (la definizione è rozza, ma comunque rende l’idea). Meglio puntare fin da subito, allora, su una “grande coalizione” Pd-Pdl: non solo si supererebbe largamente il problema dei numeri, ma nel nuovo Partito democratico si possono forse riporre quelle speranze che Berlusconi ha già deluso.

 

La “grande coalizione” potrebbe nascere con il pretesto di riscrivere in modo bipartisan le regole del giuoco: e chi potrebbe contestare una simile necessità? Ma poi un governo deve governare, non può occuparsi solo della riforma istituzionale, perché il mondo continua a girare e molto in fretta. E se l’azione di governo dovesse rivelarsi soddisfacente, non si vedrebbe il motivo che si dimettesse appena approvata la riforma. Il problema è: soddisfacente per chi?

 

Fino ad ora Veltroni ha mostrato di voler giocare questa partita, con la rottura a sinistra e le candidature-shock. Del resto, essendo il problema quello di recuperare voti, la concorrenza a sinistra era impossibile, e dunque era giocoforza puntare decisamente al centro, con numerose incursioni nell’area moderata a caccia di voti scontenti. Una tattica che potrebbe persino riuscire in quello che solo un mese fa sembrava impossibile, cioè vincere le elezioni o almeno pareggiare. Resta un mistero quello che potrà accadere dopo: nell’ipotesi, oggi ancora poco probabile, che il Pd vinca, come sarà il suo “riformismo”? E accetterà di costituire un governo con un partito che schiera Berlusconi, Ciarrapico, Cuffaro?. La speranza è l’ultima a morire. Basta che dopo le elezioni non la uccidano.

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