Ocse, pressione fiscale e pressione politica
L’organizzazione ha diffuso i dati della consueta classifica e l’Italia risulta al sesto posto. Sono stati due ricercatori della stessa organizzazione a dimostrare in uno studio che per calcolare in modo corretto la pressione fiscale bisognerebbe considerare altri fattori. Ma si continua a non tenerne conto
(pubblicato su Repubblica.it il 15 ott 08)
All’Ocse devono essere buoni cristiani, perché, a quanto pare, la mano destra non sa quel che fa la mano sinistra. Continuano a diffondere statistiche inattendibili sulla pressione fiscale dei vari paesi dopo che proprio due ricercatori dell’organizzazione hanno mostrato che i conti si devono fare in altro modo e che la classifica, in quel caso, cambia notevolmente.
Nel 2005 Willem Adema e Maxime Ladaique hanno portato a termine uno studio che riclassifica la spesa sociale tenendo conto della tax expenditure. La spesa sociale non corrisponde alla pressione fiscale (in Italia ne assorbe poco meno di tre quarti), ma questo è un modo indiretto ma significativo per capire di quanto possono cambiare le cifre. Che cos’è la tax expenditure? E’ la possibilità di detrarre dalle imposte parti del reddito utilizzate per scopi specifici, di norma per avere servizi che lo Stato non fornisce in misura sufficiente o per niente affatto: per la previdenza, per esempio, o per le donazioni a enti ritenuti meritevoli. Come da noi – ma in misura enormemente minore come dimensione complessiva – i contributi ai Fondi pensione o gli “atti di liberalità”. Se lo Stato non ti fornisce un servizio essenziale, ma poi rinuncia a tassarti quello che spendi per procurartelo (come i contributi per l’assicurazione sanitaria in Usa), è la stessa cosa che se ti tassasse per fornirti poi il servizio. In alcuni paesi, come Stati Uniti e Inghilterra, di questo metodo si fa largo uso. Inoltre ci sono altri fattori da considerare. In Germania, per esempio, le pensioni non sono tassate: questo comporta che, a parità di risultato netto nelle tasche del pensionato, risulterà più bassa sia la spesa per la previdenza che la pressione fiscale complessiva.
Questo modo – molto più corretto – di fare i conti fa cambiare non poco i risultati. La spesa sociale nella classificazione consueta vedeva l’Italia al 28,3%, il Regno Unito al 25,4 e gli Usa, con il 15,7, al terzultimo posto nell’Ocse. Dopo la riclassificazione, l’Italia risultava al 25,3%, il Regno Unito al 27,1 e gli Usa scalavano la classifica fino verso i primi posti, con un 24,5. Come si vede, si tratta di differenze molto rilevanti.
E’ anche fuorviante proporre confronti con la media, che è abbassata da numerosi paesi che hanno sì una pressione fiscale molto ridotta, ma anche servizi pubblici minimi o a volte inesistenti. E’ lo stesso discorso che vale per l’Europa a 27. Quasi tutti i nuovi membri mostrano un’imposizione fiscale complessiva molto bassa, ma sono quasi privi di istituzioni di welfare. Una strada che appare difficilmente praticabile in Italia, dove – per esempio – non si è mai riusciti nemmeno ad introdurre un ticket di qualche euro sui ricoveri ospedalieri (meno della spesa per i pasti che si sarebbero fatti a casa).
Da noi, al contrario, si propone di applicare la flexicurity (massima flessibilità ma anche massima sicurezza) al mercato del lavoro: come in Danimarca, esplicitamente citata come modello, senza mai ricordare, però, quei 5 punti in più di pressione fiscale.
Insomma, si ha la netta impressione che quando si parla di pressione fiscale (e di welfare), all’Ocse come da noi, lo si faccia più con l’obiettivo di promuovere determinate politiche che con quello di capire come stanno veramente le cose. Un modo con cui difficilmente si arriva alla soluzione dei problemi.