La crisi di inizio secolo
Sarà probabilmente ricordata così, come quella degli ultimi anni dell’800 che è invece “la crisi di fine secolo”. Le riduzioni di tassi e i piani di aiuto dei governi sono terapie di sostegno, ma la guarigione richiederà anni, perché devono essere riassorbiti fortissimi squilibri dell’economia mondiale
(pubblicato su Repubblica.it il 4 dic 2008)
Metti che uno, per ragioni di salute, debba perdere venti chili per tornare al suo peso-forma. Potrebbe usare un metodo radicale: smettere del tutto di mangiare finché il grasso in eccesso non sia smaltito. Il metodo più rapido, probabilmente, ma di sicuro brutale e non privo di conseguenze negative sia per la salute dell’interessato che per il normale svolgimento della sua vita. L’altro metodo è quello che qualunque persona normale seguirebbe: dieta stretta, qualche medicina di appoggio per non indebolirsi troppo mentre ci si nutre meno del solito e magari un po’ meno del necessario. Certo, ci vuole tempo, parecchio tempo. Anche anni. E più è il peso da buttar giù e più tempo ci vuole.
Quella della dieta è un’allegoria perfetta per descrivere la situazione dell’economia. Che negli anni passati ha mangiato troppo e male (le bolle speculative, la “ricchezza” fatta di carte che si sono rivelate false) e più che in sovrappeso è diventata obesa al limite dell’infarto, che infatti a un certo punto è arrivato: il meccanismo si è bloccato e sembra che tutto stia crollando.
A quel punto sono intervenuti gli Stati e le banche centrali con i “farmaci salvavita”: i piani di salvataggio, le iniezioni di liquidità. E forse – la prognosi non può essere ancora sciolta – hanno tamponato la fase più critica. Adesso ci sono le cure di mantenimento: le riduzioni dei tassi ufficiali, le manovre di sostegno con denaro pubblico. Perché, quando la malattia è grave come quella in cui il mondo è piombato, c’è il rischio concreto di passare dalla bulimia all’anoressia, cioè alla deflazione, una situazione in cui l’attività economica va in stallo e non si riesce a farla ripartire. Fino a non molto tempo fa gli economisti erano scettici sulla possibilità che una tale situazione potesse verificarsi nella realtà, e la consideravano un’ipotesi soltanto teorica. Poi, però, si è avuta la prova che non solo di teoria si tratta.
Negli anni ’80 il Giappone conobbe una fase di clamorosa inflazione degli asset, di quelle che l’ex presidente Fed Alan Greenspan avrebbe definito di “euforia irrazionale”. L’indice Nikkei 225 della Borsa di Tokio cominciò a salire dal 1978, ma cominciò ad impennarsi follemente alla fine del 1982, passando in sette anni, con una corsa ininterrotta, da quota 7000 al massimo storico di 38.915, toccato il 29 dicembre del 1989. Nel frattempo i prezzi immobiliari raggiungevano livelli altrettanto irrealistici. Al massimo della bolla speculativa, un metro quadrato a Tokio costava 400 milioni di lire, la cifra che sarebbe bastata per acquistare 60-70 metri quadri in città come Roma o Milano (e anche in Italia, all’epoca, i prezzi immobiliari erano in tensione). Quando la bolla – inevitabilmente – scoppiò, provocò una catastrofe: il Giappone entrò in un tunnel deflazionistico da cui né i tassi d’interesse sottozero in termine reali, né la spesa pubblica senza risparmio riuscirono a farlo uscire prima di una dozzina d’anni. Per inciso, il Nikkei – che perse nel periodo successivo il 65% - da allora è riuscito a toccare al massimo i 14.000 punti, mentre oggi, come si sa, boccheggia sotto gli 8.000.
Questo per dire che il pericolo che stiamo correndo è ben concreto, e infatti governi e banche centrali si stanno dando da fare come mai era accaduto in passato. Non ci sono due crisi uguali, quindi non si può dire con certezza come si evolverà questa. Se dovessimo basarci sulle esperienze del passato, diremmo che riduzione dei tassi e spesa pubblica sono medicine necessarie, ma non risolutive nel breve termine e che per guarire potrebbero essere necessari molti anni. Servono, quelle medicine, a sostenere l’economia mentre fa la dieta, ad impedire che, perdendo ogni forza, si afflosci su se stessa. Ma l’economia deve smaltire gli eccessi accumulati, e si tratta di eccessi a stento immaginabili. Varie istituzioni sovranazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Banca dei regolamenti internazionali) hanno prodotto delle stime sul valore dei prodotti derivati in circolazione: si tratta di un valore stratosferico, pari (a seconda delle stime) da 12 a 20 volte il Pil mondiale. E almeno la metà di questi sono over the counter, cioè trattati in mercati non regolamentati (ossia incontrollabili).
L’America, poi, deve recuperare pesantissimi squilibri, che avrebbero già fatto fare bancarotta a qualsiasi altro paese che non fossero gli Usa. Squilibri nei conti pubblici, nella bilancia commerciale, nell’indebitamento dei privati, il cui totale già da qualche anno ha superato il risparmio nazionale dei privati. In altre parole gli Stati Uniti, già da molti anni, vivono al di sopra delle loro possibilità. Il che significa che l’aggiustamento comporterà una riduzione del loro tenore di vita, cosa non facile né breve.
C’è poi un altro squilibrio che si è accentuato in tutti i paesi più avanzati a partire dagli anni ’80, l’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher: quello nella distribuzione del reddito. La recente ricerca dell’Ocse Growing Unequal? Ha mostrato che la disuguaglianza, misurata confrontando il 10% più ricco della popolazione con il 10% più povero, è cresciuta (al 2005) mediamente del 12% (in Italia del 33). E il rapporto tra questi due gruppi è di un reddito 7 volte maggiore per i più ricchi in Francia, 8 in Germania, 11 in Italia, 16 negli Stati Uniti. Lo squilibrio nella distribuzione del reddito non è un problema (soltanto) di equità, ma anche dell’economia: restringe la platea del consumo di massa e dunque spinge le aziende verso una frenetica innovazione di prodotto, senza il tempo di ammortizzare quello precedente, per continuare a vendere a quella cerchia più ristretta che se lo può permettere. Il risultato è un grande spreco e un sistema poco stabile. In America, poi, hanno aggiunto una ulteriore sofisticazione: visto che non avete soldi, vi facciamo indebitare facilmente, così comprate a credito. Ma poi, inevitabilmente, arriva un momento in cui bisogna pagare il conto: e sembra proprio che quel momento sia arrivato.
Ben vengano dunque le riduzioni dei tassi (ormai sono sottozero in tutto il mondo) e i sostegni pubblici, servono per evitare che il mercato ritrovi il suo equilibrio in modo violento, cioè attraverso fallimenti a catena, disoccupazione di massa, povertà dilagante. Certo, sono cose che costano, e si aggiungono ai conti da pagare: ma meglio questo che un’altra Grande Depressione. E ben vengano anche le regole nella finanza, la cui mancanza ha avuto un ruolo non piccolo in quello che sta succedendo. Ma non è stato questo il solo motivo, però, come abbiamo cercato di dire. Per questo c’è da pensare che la guarigione richiederà molto tempo, sempre che si scelga la strada giusta. Se non sarà così, avremo visto qualcosa di nuovo.