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 Politica Riduci

Il welfare e l’identità della sinistra

 

Un saggio di Laura Pennacchi, "La moralità del welfare - Contro il neoliberismo populista", mostra come lo sviluppo della protezione sociale e dei diritti di cittadinanza siano connaturati a quello della democrazia e fa giustizia della teoria della fine delle differenze tra destra e sinistra

 

(pubblicato su “Quaderni di Rassegna sindacale”, n. 1, 2009)

 

Gli intellettuali europei, tra cui molti italiani, che, sull’onda dell’ennesina “Terza via”, quella di Tony Blair, hanno decretato che non ha più senso parlare di differenze fra destra e sinistra, dovrebbero certamente leggere il libro di Laura Pennacchi “La moralità del welfare”. Un titolo forse riduttivo rispetto alle tesi sviluppate nel libro, dove si analizza, a partire dagli assunti filosofici e culturali che ne costituiscono la base, tanto la genesi del welfare come parte costituente dello sviluppo dello Stato democratico e del “modello sociale europeo”, quanto il presupposto di quella che a partire dagli anni 80 del secolo scorso è diventata la cultura egemone sia in economia che in politica, ossia la cultura neoliberista.

 

L’analisi fa emergere due culture politiche radicalmente differenti, a partire dalle concezioni dell’uomo, delle sue caratteristiche e delle motivazioni del suo agire che costituiscono gli assiomi a partire dai quali si sviluppano poi i due sistemi di pensiero. Seguendo i percorsi esposti nel libro, che si appoggia a una bibliografia estesa e articolata, viene da chiedersi come sia stato possibile che sia sorto quel dibattito, che peraltro ancora oggi appare, nella concezione comune, tutt’altro che superato.

 

Diventa persino secondaria una critica basata sull’attuale catastrofe economica mondiale, che – sarebbe difficile negarlo – è figlia legittima proprio del neoliberismo e dei suoi profeti. Quello che ci viene proposto non è tanto – o soltanto – un confronto fra la razionalità economica e l’efficacia di due modelli, ma un’alternativa fra due visioni del tutto diverse di come far crescere e far funzionare la società e lo Stato.

 

Sviluppo della democrazia e sviluppo del welfare, osserva Pennacchi, sono intimamente legati, perché quest’ultimo costituisce la concretizzazione di quei valori di autonomia, libertà non solo formale, eguaglianza, responsabilità che sono l’ethos della democrazia. Si evidenzia qui una prima fondamentale differenza rispetto alla concezione della società propria dei neoliberisti. Per questi ultimi la società è una “società privata”, nel senso che gli elementi che la compongono perseguono i propri fini privati o in concorrenza o indipendenti, ma in nessun caso complementari. La libertà è in pratica ridotta alla “libertà di possedere”, e dunque qualsiasi intrusione in questa sfera – come ad esempio l’obbligo di pagare le tasse – è vissuta come un esproprio. Ma si tratta di una visione non solo ristretta, ma addirittura pre-moderna: lo Stato costituzionale si è sviluppato estendendo i diritti della persona dal piano civile e politico a quello sociale, e dunque basa la sua legittimità sul rispetto dei diritti sociali in quanto connesso al riconoscimento dei più generali diritti dell’uomo.

 

L’uomo dei neoliberisti è “autointeressato”, ossia concepisce il proprio interesse come l’unico motore razionale dell’agire. Ma allora, come giustificare l’altruismo? E poi la realtà ci racconta un’altra storia, la storia di collettività che riflettono sui valori universali della persona e costruiscono istituzioni che perseguono fini comuni, non soltanto per mettersi al sicuro dalla violenza, ma anche per raggiungere un “ordine giusto”. E le istituzioni del welfare sono uno degli aspetti più importanti dell’azione volta a dare sostanza agli ideali di libertà ed eguaglianza caratteristici delle democrazie moderne, che in questo modo sono state in grado di perseguire l’allargamento dei consensi e la neutralizzazione dei conflitti, che altrimenti sarebbero con ogni probabilità diventati esplosivi.

 

Altrettanto errata appare la concezione secondo cui le tasse costituirebbero una sottrazione e sostanzialmente una violazione della proprietà dell’individuo. La proprietà privata, infatti, non è un’entità naturale, ma un’istituzione che esiste in quanto esiste lo Stato, e deve essere da esso regolamentata. Le tasse dunque non “sottraggono” alla proprietà, perché la proprietà è quella che viene dopo il pagamento delle tasse. Il livello di queste ultime dipende dal grado di redistribuzione stabilito in quel determinato sistema sociale.

 

Si tratta di analisi convincenti che difficilmente si potrebbero non sottoscrivere. Si può però aggiungere l’osservazione che non di rado, da parte della sinistra, la giusta difesa dei principi non è stata accompagnata da un impegno altrettanto pressante per migliorare la qualità della redistribuzione. L’opposizione alla riduzione della spesa pubblica, per esempio, guadagnerebbe tanta più forza se ci si impegnasse in modo equivalente anche nello sforzo della sua razionalizzazione, combattendo gli sprechi, i provvedimenti inadeguati e le rendite di posizione anche nei casi – e ce ne sono – in cui dovessero coinvolgere settori del mondo del lavoro.

 

L’avanzata del neoliberismo

 

A partire dalla fine degli anni ’70 un’ideologia nuova comincia a prendere piede e conquista man mano una quasi completa egemonia, tanto da arrivare ad essere definita come “pensiero unico”. Si tratta appunto del neoliberismo, che troverà i suoi punti di forza nell’Inghilterra di Margaret Thatcher e negli Stati Uniti di Ronald Reagan e poi di George W. Bush. Questa ideologia riesce ad imporre l’idea che il mercato debba essere il principio regolatore universale e che lo scambio debba essere considerato un’etica in se stesso. Alla base vi sono gli assunti di cui si è detto, secondo cui gli individui, titolari di “diritti naturali” di proprietà, interagiscono tra loro alla esclusiva ricerca del proprio interesse. In questa concezione lo Stato – come disse Reagan – non “ha dei problemi”, “è” il problema; il settore privato è sempre più efficiente di quello pubblico e offre più vaste possibilità di scelta al consumatore, dunque va favorito.

 

In realtà, osserva Pennacchi, altre teorie, come quella dell’”economia dell’informazione” di Joseph Stiglitz, sostengono che “ogni volta che ci sono asimmetrie informative e/o mercati incompleti, cioè quasi sempre, allocazioni efficienti da parte del mercato non possono essere raggiunte senza intervento dello Stato. La visione standard considera i fallimenti del mercato delle eccezioni (eccezioni alla regola generale che le economie decentralizzate portano a un’allocazione efficiente delle risorse). Il nuovo indirizzo analitico fa emergere esattamente il contrario: è solo in circostanze eccezionali che il mercato è efficiente” (p.63).

 

Ma le (poche) voci critiche sono sovrastate e inascoltate. Il processo è ormai avviato, e porterà verso una globalizzazione prima finanziaria – il turnover finanziario quotidiano, ricorda Pennacchi, era di 2,3 miliardi di dollari nel 1983 ed aveva raggiunto i 130 nel 2001 –  poi di quasi tutta l’economia, sotto il segno di una progressiva deregulation che diventerà parossistica con l’inizio del nuovo secolo, con l’appoggio di istituzioni internazionali (in primo luogo Fondo monetario e World Bank) convertite al verbo neoliberista. Le tasse, naturalmente, sono da abbattere e Reagan ridurrà l’aliquota marginale dal 70 al 28% (p. 78). Penserà in seguito Bush a proseguirne l’opera. Le sperequazioni di reddito superano l’immaginazione. Nel 1996, secondo lo Human Development Report dell’Onu, “la ricchezza netta delle 358 persone più ricche del mondo è divenuta pari al reddito complessivo dei 2,3 miliardi di persone molto povere (il 45% della popolazione mondiale) e nel 1998 i 200 superabbienti risultano aver più che raddoppiato, rispetto ai quattro anni precedenti, il loro patrimonio netto” (p.82).

 

Nessuno di coloro che cavalcano questo processo sembra preoccuparsi del fatto che le crisi diventano sempre più frequenti. Le crisi messicane del 1982 e ’95, quella valutaria che di fatto abbatté il Sistema monetario europeo del ’92-93, quella del Far East del 1997-98 seguita da quelle brasiliana e russa, lo scoppio della “bolla” della new economy nel 2000, il crack dell’Argentina l’anno successivo.

 

La commodification e la spesa sociale

 

Se il mercato, attraverso il sistema dei prezzi, è il modo più efficiente di utilizzare le risorse, ne deriva che qualsiasi cosa può essere trattata come una merce (commodity). La salute e l’istruzione, l’assistenza domiciliare e la previdenza, i servizi pubblici e persino l’acqua, tutto può essere più utilmente comprato e venduto evitando così il passaggio attraverso una burocrazia fiscalmente vorace. Un orientamento coerente con l’inconcepibilità, per i neoliberisti, della responsabilità collettiva: se la società è fatta di individui ognuno dei quali persegue solo i propri scopi, può esistere soltanto la responsabilità individuale e ad essa ciascuno deve fare appello per coprirsi dai rischi sociali. Che poi affidando ai privati i servizi sociali si creino diseconomie di gestione (meno numerosi sono i gruppi meno frazionato è il rischio assicurativo e maggiori sono le spese amministrative) o problemi di selezione avversa (nessuno vuole assicurare i soggetti che ne hanno più bisogno, cioè quelli a maggior rischio), viene evidentemente considerato un fattore del tutto secondario. D’altronde un’altra caratteristica del neoliberismo è la volontà di trasferire i rischi dalla gestione collettiva a quella individuale, e peggio per chi ci capita.

 

Peggio anche per il paese nel suo insieme, però. Esaminiamo la spesa sociale nei due diversi modelli. Le statistiche ufficiali, per esempio quelle Ocse, mostrano notevoli differenze con una spesa nettamente più elevata per i paesi scandinavi, una intermedia per i modelli europeo-continentale e mediterraneo e una decisamente più ridotta per il modello anglosassone (Usa e Regno Unito in particolare). Queste statistiche sono però fuorvianti, perché non tengono conto né delle diversità nella tassazione (a parità di importo netto, per esempio, una pensione tassata contribuisce ad elevare la spesa sociale più di una non tassata), né delle agevolazioni fiscali, che non appaiono del tutto e di cui nei paesi anglosassoni si fa grande uso. Le cifre corrette per tener conto di questi fattori danno risultati sorprendenti: la spesa Usa, per esempio, passa dal 16,2 al 25,2% del Pil, mentre quella svedese scende dal 31,3 al 26,1. In pratica, le differenze si riducono enormemente e i dati si raggruppano in un intervallo molto più ristretto.

 

Restano, però, notevoli differenze di efficacia. Nei paesi che hanno scelto la gestione attraverso il sistema privato, con i meccanismi, appunto, delle detrazioni e detassazioni o con trasferimenti monetari, la protezione sociale funziona molto peggio che negli altri paesi dove invece è prevalente l’erogazione diretta di servizi attraverso il sistema pubblico. Ad ulteriore dimostrazione che il mercato non è il deus ex machina in grado di fornire prestazioni migliori del pubblico in qualsiasi settore lo si applichi. Valga come esempio il sistema sanitario americano. Negli Usa – dove non esiste sanità pubblica tranne i programmi Medicare e Medicaid per anziani e indigenti, di dimensione relativamente modesta – la spesa sanitaria rispetto al Pil ha raggiunto ormai, tra pubblica e privata, circa il 16%, quasi il doppio della media europea. Eppure oltre 45 milioni di cittadini restano esclusi da qualsiasi copertura assicurativa e le ricerche che misurano la performance dei sistemi sanitari vedono invariabilmente gli Stati Uniti molto in basso nella classifica, a grande distanza dai paesi europei.

 

C’è infine un ulteriore fattore da considerare. Se i servizi sociali sono finanziati attraverso benefici fiscali, se ne trae tanto più vantaggio quanto più il reddito è elevato, mentre l’aiuto diventa trascurabile – se non del tutto assente – per i meno abbienti. Con l’evidente effetto di aggravare anche per questa via le sperequazioni nella distribuzione del reddito. “Negli Usa, fra il 1979 e il 2000, il reddito dopo le tasse e i trasferimenti dell’1% più ricco della popolazione è cresciuto in termini reali del 201% e quello del 5% benestante del 68%, mentre il reddito del 5% meno agiato e quello del 5% medio sono cresciuti solo, rispettivamente, dell’8,7 e del 15,1%”. (p.169)

 

Welfare e sviluppo

 

Un’altra leggenda che il pensiero dominante in questi ultimi trent’anni è riuscito a far passare nel senso comune è che sistemi di welfare complessi e livelli di tassazione più elevati costituirebbero un grave danno per la crescita dell’economia e per l’occupazione. In realtà l’osservazione empirica conduce non di rado a conclusioni di segno del tutto opposto. “Ciò vale per i paesi mediterranei, nei quali una bassa spesa sociale si è storicamente accompagnata non a minore ma a maggiore disoccupazione e ad alta povertà. Ma vale, all’estremo opposto, per i paesi scandinavi, per i quali la tesi dell’incompatibilità tra welfare e uno sviluppo economico sempre più determinato dai processi di globalizzazione – che accentuano la necessità di apertura agli scambi con l’estero – non spiega come mai essi abbiano sempre fatto convivere un’elevata protezione sociale con una forte integrazione nell’economia mondiale (l’espansione delle esportazioni e del commercio con l’estero ha raggiunto nel periodo 1980-89 quasi il 36% del Pil come media dei paesi scandinavi più Austria e Danimarca, una tra le più alte tra i paesi sviluppati)”. (p. 135)

 

Quanto poi alla crescita della produttività, altro fattore spesso richiamato per sostenere la maggiore efficienza economica del modello anglosassone, Pennacchi riporta studi secondo i quali il differenziale fra Usa ed Europa, negli ultimi quindici anni, non è affatto ampio come comunemente si crede. Anzi, riferito all’intera economia questo differenziale a vantaggio degli Usa si colloca appena attorno al mezzo punto percentuale. (p. 136)

 

Modelli di welfare e caso italiano

 

La seconda metà del libro analizza i vari modelli di welfare individuandone quattro. “In Europa convivono il modello anglosassone (esigua spesa sociale, orientamento dominante ad alleviare la povertà, finanziamento prevalente per via fiscale con una pressione che tuttavia si mantiene contenuta), il modello nordico (elevata spesa sociale, orientamento dominante all’offerta di servizi pubblici, finanziamento prevalente per via fiscale con una pressione che, viceversa, si dilata molto), il modello continentale (robusta spesa sociale orientamento dominante a trasferimenti per “sicurezza sociale”, finanziamento prevalentemente per via contributiva), il modello mediterraneo ( modesta spesa sociale, orientamento dominante a trasferimenti per “sicurezza sociale”, finanziamento prevalentemente per via contributiva). E l’Italia rappresenta una variante intermedia tra il modello mediterraneo e quello continentale (p.158) (…) con cui condivide – rispetto al modello scandinavo – prevalenza, rispetto ai servizi, di erogazione di trasferimenti monetari per la sicurezza sociale e finanziamento preferenziale attraverso i contributi piuttosto che attraverso le imposte” (p. 191).

 

Il welfare italiano si caratterizza però per alcune peculiarità negative. Il clientelismo e l’assistenzialismo, “legati alla gestione politica del consenso”, e la disorganicità di spettanze e prestazioni, generata anche da una crescita del tutto disordinata avvenuta per aggiunte successive, senza un disegno d’insieme. Il clientelismo si esprime in due forme: non solo deformando spesso le regole del gioco, ma, cosa ancor più grave, intervenendo sulla loro stessa formazione, a causa di rapporti tra persone o gruppi ed esponenti politici. Una caratteristica, questa del clientelismo endemico, che – nota la Pennacchi – non è propria solo del welfare, ma costituisce il modo di funzionamento dell’intero sistema italiano, come si può vedere per esempio dalle politiche per le imprese che hanno sempre seguito la stessa mancanza di logica.

 

La “cittadinanza sociale”, così, è “segnata dall’appartenenza a una comunità occupazionale particolare, e per di più viene tollerata un’alta evasione fiscale. Ne derivano effetti redistributivi ingiustificati fra settori diversi e diverse categorie di cittadini”.

 

L’analisi prosegue esaminando fenomeni già noti, che vengono però ricapitolati in maniera sistematica  e sostanziati da una serie di cifre e tabelle. Si ricorda così, per esempio, come la spesa previdenziale costituisca il capitolo prevalente nell’ambito della spesa sociale, ma questo sia perché alle pensioni è stato affidato un compito di “supplenza” rispetto a problemi che avrebbero dovuto essere affrontati diversamente (il sostegno alle ristrutturazioni industriali, per esempio, con i prepensionamenti; o quello alla povertà, con le pensioni di invalidità e quelle sociali); sia perché in altri capitoli l’Italia spende 2-3 punti di Pil in meno dei paesi comparabili. In ogni caso, grazie alle riforme attuate in tre riprese negli anni ’90 dai governi di centro-sinistra, la spesa previdenziale appare del tutto stabilizzata nel lungo termine, nonostante gli andamenti demografici non favorevoli, tanto che, a regime, l’aliquota di equilibrio dovrebbe diminuire di ben 10 punti percentuali. Dall’individuazione dei punti critici, emergono le relative proposte per giungere ad una loro correzione.

 

Il saggio si conclude indicando alcune linee di intervento. Bisogna innanzitutto accettare il fatto che la politica sociale è strettamente interdipendente con la politica economica: non può essere vista come qualcosa di residuale, a cui destinare risorse sottratte a impieghi considerati più importanti, perché è di fatto determinante per la razionalità del sistema socio-economico nel suo insieme. Per una sua migliore attuazione è necessario puntare sull’offerta di servizi, da privilegiare rispetto ai trasferimenti monetari, non solo perché le esperienze in proposito mostrano che si ottiene una maggiore efficienza, ma anche per “liberare” il lavoro delle donne, a cui proprio la mancanza di servizi impedisce di presentarsi sul mercato del lavoro (e l’Italia ha infatti una percentuale occupazione femminile che si colloca in fondo alla graduatoria dei paesi sviluppati). Tra l’altro l’aumento del tasso di occupazione, che vede appunto nelle donne il suo serbatoio principale, è un fattore di grande rilevanza per raggiungere un migliore equilibrio tra spesa e prestazioni, specialmente in campo previdenziale ma non solo.

 

La fornitura di servizi naturalmente deve essere finanziata, ed è dunque determinante il ruolo della tassazione, il livello della quale non può essere giudicato in astratto, ma in relazione al livello e alla qualità dei “beni collettivi” che vengono forniti in cambio. Non si tratta di pura teoria: nei paesi scandinavi, dove la pressione fiscale è la più alta del mondo ma i servizi funzionano, non solo l’evasione ha dimensioni ridotte, ma si registra un largo consenso sociale rispetto a quei sistemi, tanto che anche nei periodi in cui vanno al governo i partiti conservatori ci si guarda bene dall’attuare modifiche radicali.

 

In questo contesto, bisogna sia ridurre il ruolo dei trasferimenti monetari e delle detassazioni, sia delimitare attentamente il ruolo che nell’ambito del welfare possono svolgere tanto i privati che il Terzo settore. A parere di chi scrive quest’ultima è una conclusione importante, perché in questi ultimi anni, nell’ambito della sinistra, molte voci anche autorevoli si sono espresse in favore di un ruolo rilevante – anzi, progressivamente sempre più rilevante – da conferire al Terzo settore nella gestione del welfare. Una prospettiva che, anche alla luce delle analisi condotte nel saggio della Pennacchi, si può definire senza mezzi termini sbagliata. “La partnership pubblico/privato (e il Terzo settore si definisce anche come “privato sociale”, ndr) in alcuni casi (come la casa) può essere estesa in modo salutare, mentre in altri (come la sanità di base,  l’istruzione primaria, la previdenza) può avere un ruolo solo circoscritto” (p.254). Sottoscriviamo con convinzione.

 

Concludiamo con una frase di Amartya Sen, che Pennacchi riprende da Lo sviluppo è libertà: “La responsabilità personale è insostituibile (pena la perdita di cose importanti quali la motivazione, il coinvolgimento, la conoscenza di sé), ma le libertà/responsabilità che un individuo possiede realmente (non di cui gode soltanto in teoria) dipendono dalla natura degli assetti sociali, che possono essere cruciali per le libertà individuali, e qui Stato e società non possono sottrarsi alle loro responsabilità”.

 

 

Laura Pennacchi

La moralità del welfare - Contro il neoliberismo populista

Ed. Donzelli - pp. 260 - € 27


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