La morsa della Merkel
L’Eurogruppo e la Commissione accolgono la proposta tedesca “riforme in cambio di flessibilità nei conti” che la cancelliera aveva annunciato nel suo discorso di insediamento al Bundestag. Così, dopo aver imposto regole di bilancio impossibili da rispettare, si concederanno deroghe, ma solo a chi avrà attuato le riforme dettate da Berlino
(pubblicato su Repubblica.it il 20 feb 2014)
Riforme in cambio di flessibilità nei conti. Il commissario Ue Olli Rehn, ha detto il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, “ha accettato” la proposta di concedere più tempo nel risanamento dei conti pubblici a quei paesi che concordino le riforme con la Commissione e le realizzino: solo dopo sarà loro concesso un po’ più di respiro.
L’ipocrisia contenuta in questa dichiarazione è quasi stupefacente, se non fosse che ormai siamo abituati a tutto. Olli Rehn, un politico conservatore finlandese trombato nel suo paese e messo nella Commissione a fare il cane da guardia dell’austerità, avrebbe “accettato” – come se avesse potuto rifiutare! – una “proposta dell’Eurogruppo”. Questa proposta è, certo casualmente, proprio quella che la cancelliera tedesca Angela Merkel, nel suo discorso di insediamento davanti al Bundestag, aveva dichiarato di voler fare, anche se “i nostri più stretti alleati, i francesi, si oppongono, e così altri paesi – aveva osservato – ma li spingeremo ad accettare”. Ecco fatto: ha accettato l’Eurogruppo e ora, bontà sua, ha accettato anche il commissario Rehn. Il prossimo passo sarà probabilmente una modifica del Trattato di Lisbona per dare un maggior controllo europeo (cioè della Commissione europea, cioè della Merkel) sulla politica, altro programma annunciato dalla cancelliera in quello stesso discorso.
La morsa del dominio tedesco sulla politica economica europea si chiude inesorabilmente. Prima sono state fatte approvare norme sulla finanza pubblica praticamente impossibili da rispettare senza fare la fine della Grecia (il limite rigidissimo al deficit, il pareggio strutturale di bilancio in Costituzione, il Fiscal compact che impone un sentiero di riduzione del debito che stroncherà definitivamente l’economia). E ora si promette che un po’ di flessibilità si potrà avere, sì, ma solo se si faranno prima le riforme richieste dalla Commissione (cioè dalla Merkel). Se ne va così l’ultimo brandello di sovranità degli Stati nazionali, che dopo aver rinunciato alla moneta e alla politica di bilancio dovranno ora anche subire le riforme imposte dall’esterno, nella logica del “o bevi o affoga”.
E’ inevitabile tutto questo? Non lo sarebbe. La Germania e i suoi alleati non potrebbero esercitare un dominio così incontrastato se i paesi che subiscono le conseguenze più pesanti di questa politica, cioè i paesi mediterranei Francia compresa, si coordinassero per avere più voce in capitolo ed evitare di dover soltanto obbedire alla linea decisa da Berlino. Ma questo non è ancora accaduto e probabilmente non accadrà, per un motivo molto semplice: le classi dirigenti di questi paesi sono quasi completamente d’accordo con questa impostazione, frutto del pensiero dominante in economia degli ultimi trent’anni. Quindi, al massimo, si spingono a pietire un po’ di compassione, ma si guardano bene dal mettere in discussione i presupposti di questa politica.
Quello che sta accadendo in Italia per la scelta del prossimo ministro dell’Economia è coerente con questo quadro. Si tratta di una posizione strategica, seconda per importanza solo alla presidenza del Consiglio (e forse nemmeno). Ebbene, i nomi che sono circolati per la candidatura sono tutti di persone di cui è nota l’omogeneità a quella visione politica. Fa eccezione Fabrizio Barca, la cui candidatura, però (peraltro tramontata) non è certo nata dall’entourage renziano. Avremo un ministro che combatte a Bruxelles (e a Berlino, e a Francoforte) per far cambiare una politica che ci danneggia o una persona intimamente convinta che, se affondiamo, è colpa solo dei nostri “peccati”? Peccati che ci sono, intendiamoci, e pure gravi. Ma il modo migliore di far finire una malattia non è quello di ammazzare il paziente.