Il cuneo? Meglio la leva
Tra interventi sul cuneo fiscale, l’Irap e i sussidi di disoccupazione l’impegno è per una cifra imponente, circa 25 miliardi. Ci si potrebbero assumere un milione di persone, il doppio se con mini-job: potrebbe essere la leva della ripresa, molto meglio che questa distribuzione senza obiettivi precisi e senza una strategia di politica economica
(pubblicato su Repubblica.it il 2 mar 2014)
Riduzione dell’Irap 2,3 miliardi; tagli al cuneo fiscale 8 miliardi (ma “a 10 si può arrivare”: Filippo Taddei, responsabile economico Pd, dixit); il nuovo sussidio di disoccupazione (Nespi) 1,6 miliardi in più di quello che già si spende, che arriva così a 8,8; cassa integrazione in deroga 2,5-3 miliardi. Siamo, alla grossa, a 25 miliardi, un sacco di soldi. Destinati a ridurre ancora il costo del lavoro (cuneo), dare sgravi indifferenziati alle imprese (Irap), dare un minimo vitale a una parte dei disoccupati, aggiungere in media 42 euro scarsi al mese a chi un lavoro ce l’ha. E’ la manovra migliore possibile?
Con tutta la buona volontà, è difficile dare una risposta positiva. L’impressione è che si cerchi di dare qualcosa a tutti, ma senza un disegno, senza una strategia capace di fa fare un salto di qualità alle politiche anti-crisi. Un po’ come aveva fatto il governo Letta, ma stavolta con risorse ben più imponenti, che ancora non si sa da dove salteranno fuori e con quali controindicazioni. La parte più importante dovrebbe arrivare dalla mitica spending review, cioè dai tagli agli sprechi; ma bisognerà vedere quali tagli e che cosa sarà considerato “spreco”. Si negano ulteriori aumenti delle imposte, ma anche questo sarà da verificare. Nessuna traccia di una politica industriale, ai 3,3 milioni di disoccupati (per ora) qualche sollievo, ma assai poche prospettive.
Bisogna ancora ripetere che ridurre il costo del lavoro è un pannicello caldo. Quello italiano è già basso rispetto agli altri paesi avanzati, e resterà comunque alto rispetto a quelli che non lo sono. Inoltre il costo del lavoro ha un peso limitato sul totale dei costi: secondo una ricerca dell’Ires si aggira in media sul 15%, ma naturalmente varia a seconda del settore e dell’impresa e in quelle a più alta intensità tecnologica è ragionevole pensare che sia nettamente più basso. Quindi un ulteriore intervento su questo fattore è un aiuto (non risolutivo) alle imprese meno competitive. Più o meno lo stesso effetto avrà il taglio dell’Irap. Entrambi questi interventi valgono per tutti, quindi non danno indirizzi e non scelgono di concentrare gli sforzi su settori da sviluppare o su comportamenti virtuosi, come quelli di chi investe o aumenta la produttività. E gli dei sanno se di incentivare gli investimenti ci sarebbe bisogno, visto che dall’inizio del nuovo secolo erano praticamente fermi e dopo l’inizio della crisi sono crollati. Senza investimenti, non c’è legge sulla flessibilità (ancora?) che possa far aumentare la competitività.
Soprattutto, rimane aperto il problema più grave, quello della mancanza di lavoro. Nel dibattito se dare un sostegno economico ai disoccupati o trovare loro un’occupazione sembra proprio che stia prevalendo la prima ipotesi. Ma, molti dicono, i posti di lavoro non si creano per legge. E’ proprio vero? Non la pensava così Franklin Delano Roosevelt, che al culmine della Grande crisi, appena eletto alla presidenza, trovò un’occupazione a 3 milioni di persone. E nemmeno, per fare un altro nome importante più vicino ai nostri tempi, Paolo Sylos Labini, che aveva proposto di istituire l’”esercito del lavoro”.
Se la retribuzione media in Italia è intorno ai 25.000 euro (ma ormai sarà più bassa), con quei 25 miliardi si darebbe lavoro a un milione di persone. Se invece, come la Germania, scegliessimo di orientarci sui mini-job – che lì sono un quinto degli occupati – il numero raddoppierebbe. Per fare cosa? Ce n’è per tutte le possibilità e per tutte le qualifiche, dalla riforma del catasto alla manutenzione del territorio all’assistenza domiciliare, fino, per i più qualificati, alla ricerca, così magari si eviterebbe almeno in parte che continui la fuga dei cervelli verso l’estero. Se l’”emergenza occupazione” non è solo uno slogan per i salotti televisivi non si capisce perché non si prenda questa strada, invece di gettare via altre risorse in una inutile – perché non sarebbe comunque tale da generare una svolta – riduzione del costo del lavoro. A tutte quelle persone si garantirebbe un reddito, ma anche la soddisfazione di esserselo guadagnato, oltre a produrre servizi utili per la società. E l’aumento dell’occupazione sarebbe una buona leva per sostenere la ripresa, altro che cuneo…
Ancora una cosa. Smettiamola, per favore, di dire che ai nostri figli vogliamo “lasciare i conti a posto”. Per ora gli stiamo lasciando una produzione industriale precipitata di un quarto rispetto al 2008. Anche tralasciando il fatto che il crollo del Pil ha fatto pesantemente deteriorare il suo rapporto con il debito pubblico, se pure i conti andassero a posto, ma al prezzo di distruggere l’economia, non sarebbe un buon affare.