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 Stato sociale Riduci

Lo Stato abbattuto
dai “volontari”

La grande mobilitazione seguita al terremoto ha stimolato riflessioni sul ruolo del volontariato. Ma spesso questa definizione si usa per indicare tutto il Terzo settore, che comprende strutture assai diverse. Che, specie dopo una recente legge delega in materia, sono oggettivamente un mezzo usato per privatizzare il welfare, introdurre il profitto nella gestione dei servizi essenziali e ampliare un segmento del mercato del lavoro precario e malpagato

(pubblicato su repubblica.it il 30 ago 2016) 

Si può parlare di “volontari di professione”? Lo fa Ilvo Diamanti in una riflessione che prende le mosse dalla grande mobilitazione in seguito al terremoto. Diamanti, che è un autorevole studioso dei fenomeni sociali, forse usa questa espressione volendole conferire un significato paradossale. Fin dall’inizio del suo intervento, infatti, avverte che nel discorso comune il termine volontariato si usa senza precisazioni per indicare “un fenomeno distinto e molteplice”, ed elenca poi le principali forme a cui, in modo appunto indistinto, ci si riferisce.

Tra queste ci sono i “volontari di professione”, cioè coloro che operano nelle cosiddette “imprese sociali”, che “dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali”. In questo modo, però, Diamanti rischia di contribuire alla confusione di cui ha appena parlato. I volontari sono, come peraltro li definisce l’Istat, quelli che svolgono "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Gratuite: è questo che contraddistingue il volontariato dalle altre forme di impegno all’interno di quel variegato ambito definito “Terzo settore” o “economia sociale”. Le imprese sociali con il volontariato c’entrano poco o nulla, anche se spesso alla loro attività contribuiscono anche volontari. Anche se si definiscono “non profit”, non operano affatto gratuitamente, e i loro dipendenti sono retribuiti (quasi sempre molto poco e spesso scandalosamente poco).

Diamanti parla del rischio di dipendenza “da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche”. Ma in effetti non sembra affatto quello il rischio più rilevante. Che è, invece, quello di essere uno strumento per la privatizzazione dei servizi pubblici, dall’assistenza (che già per più del 50% è appaltata dai Comuni a questo tipo di imprese) all’istruzione e alla sanità. I servizi che dovrebbero essere garantiti dal settore pubblico come diritti di cittadinanza sono sempre più affidati a un Terzo settore dove dilaga il precariato e la sottoretribuzione e dove i diritti del lavoro – quelli ancora rimasti – sono di frequente elusi o ignorati.

Quei servizi dovrebbero essere gestiti dal settore pubblico che è per definizione non profit. Le imprese sociali, invece, i profitti puntano a farli, con il solo limite di non poter remunerare il capitale, limite che è facile trasformare in una foglia di fico dietro la quale i soldi prendono le direzioni volute.

La nuova legge delega approvata nel maggio scorso, poi, ha aperto un’ulteriore breccia, accelerando sulla via della privatizzazione del welfare. Ha scritto Giulio Marcon, deputato di Sinistra italiana: “La legge infatti apre la possibilità anche alle imprese profit (pure con alcuni limiti nella distribuzione degli utili) di gestire servizi nella sanità e nell’istruzione, utilizzando le agevolazioni del non profit, ma facendo profitti. La legge introduce per questa tipologia di organizzazioni la “remunerazione del capitale investito”, al pari delle tradizionali società commerciali. Si accentua così ancora di più il business della sanità e dell’istruzione, travestito da “finalità sociali”.

Il Terzo settore sembra dare una risposta agli obiettivi di tanti giovani che cercano un lavoro che non sia solo un mezzo di sopravvivenza, ma abbia anche un senso etico e sociale. Purtroppo questa spinta altruistica, risorsa preziosa della società, viene utilizzata nell’ambito dell’ideologia dominante, che vede in tutto ciò che è pubblico un nemico da abbattere e da ridurre in confini il più possibile ristretti. Il non profit, a dispetto di tanti suoi sostenitori in perfetta buona fede, è il cavallo di Troia proprio per introdurre il profitto nella gestione dei servizi essenziali, e nello stesso tempo un segmento del mercato del lavoro tra i meno garantiti e retribuiti. Non è la prima volta – e certo non sarà l’ultima – che idee all’apparenza lodevoli subiscono un’eterogenesi dei fini che le trasforma in un fenomeno da combattere. Chi pensa che il pubblico non debba abdicare al ruolo maturato in oltre un secolo, farebbe bene a riflettere sul sostegno che, anche da molti di loro, è stato dato finora a questo fenomeno.


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