Il 18 è un numero dispari
L’importanza del famoso articolo non è pari per tutti: conta poco o nulla dal punto di vista macroeconomico, ma è fondamentale per la condizione dei lavoratori. Tanto che varrebbe la pena di proporre uno scambio: salari più bassi (tanto, con la politica europea, scenderanno comunque) in cambio della rinuncia alla parte più critica in tema di lesione dei diritti
(pubblicato su Repubblica.it il 30 marzo 2012)
Ma è importante o no, questo articolo 18 su cui si fanno tante battaglie? Non dovrebbero esserci dubbi, visto l’accanimento con cui ci si scontra per vanificarlo o per conservarlo. Eppure personaggi autorevoli, come per esempio Pierre Carniti, hanno ripetuto più volte che è un falso problema, che a ben vedere si applica in pochi casi, che – in fondo – appare più che altro un diversivo per non parlare di problemi assai più importanti, come ad esempio il rilancio della crescita e dell’occupazione. Cosa a cui gli “abolizionisti” ribattono che è proprio per rilanciare la crescita e l’occupazione che bisogna toglierlo di mezzo.
Come spesso accade, c’è del vero in entrambe le tesi. Si potrebbe dire, a dispetto della matematica, che questo 18 è un numero dispari, o, se si volesse usare una terminologia più professorale, che i suoi effetti sono asimmetrici: è poco o nulla rilevante per certi aspetti, moltissimo per altri. E se si riuscisse a mettersi d’accordo su questo si otterrebbe se non altro un dibattito più chiaro su cosa si vuole e come ottenerlo.
La Banca d’Italia, che non può certo essere sospettata di “sinistrismo”, si è espressa più volte su questo argomento, tanto in maniera ufficiale che ufficiosa. Risale al lontano 2005 una ricerca le cui conclusioni erano che non è rilevabile un effetto dell’articolo 18 che freni la crescita dimensionale delle imprese. Molte altre, di altri ricercatori, hanno poi confermato le stesse conclusioni. Anche nei giorni scorsi la Banca, consultata, ha affermato testualmente che l’articolo 18 “non ha effetti macroeconomici”. Può creare qualche problema solo a livello micro, cioè di singole imprese, che, specie quando sono di piccola dimensione, non gestiscono facilmente un reintegro che avviene spesso dopo anni dal licenziamento, quando la persona è stata da tempo sostituita. Ma questo è un problema che attiene ai tempi della giustizia e dunque lì dovrebbe essere cercata la soluzione.
Che poi non ci sia alcun collegamento con un eventuale aumento dell’occupazione, è cosa su cui quasi tutti gli economisti sono d’accordo e si sono espresse in questo senso anche istituzioni come l’Fmi e l’Ocse (che pure in proposito ha avuto un atteggiamento oscillante).
Concludendo: dal punto di vista economico l’articolo 18 ha una rilevanza scarsissima, se non addirittura nulla. Ma vediamolo da un altro aspetto.
Dal punto di vista del lavoratore l’articolo 18 è importante, eccome. Essere licenziabili per motivi “economici o organizzativi” significa di fatto essere licenziabili a volontà, perché, anche dove non siano comprovabili motivi economici, un motivo organizzativo si può imbastire facilmente. E anche se, secondo l’ultima ipotesi di cui si parla, fosse affidata a un giudice la valutazione, quest’ultimo non potrebbe che constatare che i motivi organizzativi sussistono, a meno di non contestare all’azienda il suo modello organizzativo, il che è impensabile.
E allora, una giovane donna ci penserà bene prima di decidere di avere un figlio, e ancora di più se ne desiderasse un secondo, magari a poca distanza dal primo come è normale e logico che avvenga. Un dipendente che dovesse attraversare un periodo critico per la salute andrà al lavoro anche se sta male, per non passare per assenteista. Se si accorge che in azienda qualche norma di sicurezza non viene rispettata farà finta di nulla, perché potrebbe essere considerato un piantagrane. Se vede che un collega viene trattato ingiustamente si guarderà bene dal prendere le sue parti. Non aprirà bocca di fronte a qualsiasi richiesta di straordinari o turni particolari, anche se ciò gli crea seri problemi perché magari ha un familiare malato da accudire. Inghiottirà senza fiatare rimproveri o reprimende che considera ingiustificati. Forse non se la sentirà di aderire a un sindacato che sa non essere gradito in azienda, anche se pensa che sarebbe utile per difendere i suoi interessi. Insomma, dovrà essere un bravo soldatino la cui unica risposta è “signorsì”.
L’aspetto speculare di tutti questi motivi spiega perché invece gli imprenditori all’abolizione ci tengano tanto. In più, la libertà di licenziamento offre loro la possibilità di ridurre il costo del lavoro, sostituendo una parte dei lavoratori più anziani, la cui retribuzione è un po’ più alta se non altro per qualche scatto di anzianità, con giovani che potranno essere tenuti per anni in una condizione di precariato e che comunque anche dopo una eventuale assunzione, per esempio con il contratto di apprendistato, per molti altri anni costeranno meno.
Con questo non si vuole dipingere una classe imprenditoriale spietata e senza cuore, dove tutti, per pochi soldi, sono pronti a gettare sul lastrico padri e madri di famiglia. Negli ultimi tempi abbiamo visto, purtroppo, molti imprenditori che sono arrivati al gesto estremo del suicidio di fronte all’ormai inderogabile necessità di licenziare i loro dipendenti. Ma di fronte a questi casi ci sono quelli della Thyssen e di tanti altri con assai meno scrupoli e un modo di comportarsi assai diverso. Le leggi si fanno non perché tutti sono “cattivi”, ma per evitare che quel certo numero di “cattivi” che senza dubbio esiste possa fare danni.
Se così stanno le cose, è pensabile che si possa raggiungere un compromesso? C’è un modo diverso per raggiungere gli obiettivi dichiarati dal governo? Che sono, lo ricordiamo, eliminazione del dualismo del mercato del lavoro, più opportinità per i giovani, più flessibilità per le aziende, riduzione del precariato?
Innanzitutto bisognerebbe che il governo, segnatamente nelle persone del presidente Monti e del ministro Fornero, rinunciasse alla demagogia e – visto che Monti continua a lodare la maturità dei cittadini italiani – dicesse le cose come stanno. Per esempio, che nel prossimo periodo, non si sa quanto lungo, l’occupazione non può aumentare, anzi sicuramente diminuirà; che se l’occupazione non aumenta non si possono dare più opportunità ai giovani senza espellere un numero maggiore di meno giovani; che l’eliminazione della precarietà non è alle viste; che i nuovi ammortizzatori sociali prospettati sono per molti versi una riduzione rispetto a quelli attuali e sono ben poca cosa rispetto alle necessità, assumendosi semmai la responsabilità di affermare che “in questa situazione non si può fare di più”. Soprattutto esplicitando ciò che invece non è stato detto: data la politica imposta dall’Europa (cioè dalla Germania), con l’appoggio delle tecnostrutture (Bce, Commissione, Fmi e via dicendo), le retribuzioni devono diminuire, fintanto che non sarà stata pareggiata la perdita di competitività accumulata rispetto alla Germania dall’entrata in vigore dell’euro fino ad oggi. E’ una politica sbagliata, non ci stancheremo di ripeterlo, ma finché questi sono i rapporti di forza, politici e sociali, non ci si può fare niente, se non cercare di limitare i danni.
Se si arrivasse a trattare sulla base di affermazioni aderenti alla realtà si potrebbe proporre uno scambio, la cui base dovrebbe essere l’ultima delle questioni ricordate, che appare al momento la meno evitabile. Le retribuzioni debbono scendere? Bene, i sindacati offrano esplicitamente questo alle controparti – imprenditori e governo – in cambio della rinuncia alla parte più critica in tema di lesione dei diritti e peggioramenti normativi. La riduzione può avvenire così, con una scelta esplicita e contrattata; altrimenti avverrà lo stesso, come conseguenza della cosiddetta riforma che quasi certamente verrà varata in ogni caso. Si potrebbe persino offrire la rinuncia temporanea ad alcuni istituti, per esempio i prossimi due o tre scatti di anzianità. Si accetterebbe un sacrificio pesante per tutti i lavoratori (che però al momento appare inevitabile), ma si eviterebbe la distruzione dei risultati di tanti anni di battaglie di progresso per le condizioni dei lavoratori. Quando poi la congiuntura cambierà di segno, sarà più facile riconquistare livelli salariali decenti che un quadro normativo perduto, e comunque nel frattempo si eviteranno le altre pessime conseguenze che deriverebbero da norme come quelle sull’articolo 18.
Di fronte alle posizioni ideologiche è difficile ragionare, quindi non è detto che questa strategia funzioni. Però varrebbe la pena almeno di provare.