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 Politica industriale

Il mistero Alitalia e il vero scandalo Telecom

Della compagnia aerea non si capisce perché sia considerata "strategica" e meriti questo accanimento terapeutico. Quanto a Telecom, lo scandalo sta nel come è stato accolto il doveroso interessamento del governo

 

(18 sett 2006)

 

In tutte e due le vicende industriali che animano le cronache di questi giorni, Alitalia e Telecom,  si ha la sensazione che il dibattito non sia quello giusto. Su Alitalia, che come tutti ricorderanno è a controllo pubblico, si continua a discutere di come risanare e rilanciare un’azienda definita “strategica”. Su Telecom – che fu chiamata, all’epoca, “la madre di tutte le privatizzazioni” – c’è chi si scandalizza per un presunto interventismo del governo, o in nome dell’autonomia dell’impresa (buona parte dei commentatori dei maggiori giornali) o per paventare un risanamento pagato con i soldi pubblici (Francesco Giavazzi sul Corriere del 18 settembre).

 

Cominciamo da Alitalia. Si dovrebbe discutere, forse, perché mai si tratti di un’azienda di importanza “strategica per il paese”. Personalmente non seguo quelle tesi che vedono nella proprietà pubblica una sciagura sempre e comunque. Quando la Fiat era sull’orlo del baratro, infatti, avevo sostenuto che l’azienda andava salvata e che se non si fosse trovata un’altra via avrebbe dovuto intervenire lo Stato. Ma la Fiat non è solo una della maggiori aziende industriali del paese, è anche e soprattutto uno dei (pochi) punti di forza della nostra industria avanzata, un polo di tecnologia e di ricerca, un pezzo importante del “sistema-paese”, insomma. L’Alitalia lo è? Non si vede da quale punto di vista. Si tratta di un’azienda di servizi che opera in un settore, quello del trasporto aereo, in cui i protagonisti sono numerosissimi e la concorrenza funziona davvero. Che cosa ci sta a fare un’azienda di Stato? Guadagnasse, almeno, potrebbe giustificare la sua esistenza. Ma dato che così non è, dato che non si vede quali specifici interessi nazionali abbia la missione di preservare, a che scopo questo accanimento terapeutico? Si tolga di mezzo questa grana e si concentrino gli sforzi e le risorse su altri e più importanti problemi.

 

Quanto al caso Telecom, nessuno ancora ha parlato del vero scandalo, che è il modo in cui i mezzi di informazione stanno trattando la vicenda. Era tempo che non si vedeva un condizionamento così pesante delle proprietà sulle linee editoriali. Uno scandalo vero che ne ha accreditato uno fasullo, ossia il dirigismo del governo nei confronti di un’impresa privata.

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Ora, non bisogna dimenticare che la Telecom è quotata in Borsa, ed è fra le tre o quattro il cui capitale è più diffuso fra gli azionisti. In inglese, una società di questo genere, si chiama public company, nel senso appunto che appartiene al pubblico degli investitori (e qui, anche se ci sono degli azionisti di controllo, il concetto non cambia). Inoltre, come la Fiat, è una delle nostre poche grandi aziende che operano in un settore di punta, uno di quelli determinanti per il nostro futuro di paese industriale. Come tale, è un patrimonio non solo dei suoi azionisti, ma di tutti i cittadini italiani. Ebbene, di una tale realtà il governo dovrebbe disinteressarsi, lasciandola finire come e dove la mitica “mano invisibile” riterrà di portarla? Purtroppo se n’è interessato male in passato, quando ha permesso (e anzi favorito) una scalata che è all’origine dei mali attuali: ma probabilmente si pensava allora più alla politica di potere che alla politica industriale. Ma non è che gli imprenditori privati abbiano dato poi miglior prova, come testimonia la situazione attuale.

 

E cosa avrebbe fatto il governo, di tanto scandaloso? Il premier Romano Prodi si è seccato di non essere stato informato del progetto che si stava preparando e che, se sarà attuato, con buone probabilità risolverà i problemi degli azionisti di maggioranza ma ci farà uscire come competitori da un altro settore fondamentale. E il suo consigliere Angelo Rovati ha proposto – pasticciando non poco  fra iniziativa personale o del governo – un piano alternativo a quello prospettato. Tronchetti Provera ha parlato addirittura di una “volontà di esproprio”, ma le cose come stanno le ha dette con chiarezza il professor Giavazzi ( per criticarle, peraltro): “E’ possibile che il ministro dell’Economia sia faticosamente alla ricerca di 30 miliardi di euro con i quali far tornare i conti della legge finanziaria e negli stessi giorni i consiglieri del presidente del Consiglio pensino di spenderne 10 per acquistare un pezzo di Telecom Italia, e così consentire a qualche privato di rimborsare i propri debiti con i denari dello Stato?”. Altro che esproprio. Può darsi che Giavazzi abbia ragione, che non sia quella la strada migliore: di questo si può discutere. Ma dove starebbe lo scandalo che tanti hanno sprezzantemente denunciato? Nel fatto che il governo si muova quando vede che il paese rischia di uscire da un altro settore importante (questo sì, è “strategico”) dell’economia?

 

Male ha fatto Angelo Rovati a dimettersi e male Romano Prodi a permetterglielo. Come in altri casi, anche qui il governo ha comunicato pessimamente le proprie ragioni.

 

Dopo le dimissioni di Tronchetti, il nuovo presidente Guido Rossi ha dichiarato che intende proseguire con il piano approvato dal consiglio di amministrazione, cioè lo scorporo della parte finale della rete (ma nulla si sa per fare poi cosa) e della telefonia mobile, cosa che potrebbe preludere alla sua vendita. In questo caso si trasformerebbe Telecom in una media company: ma non nel senso dei mass media, nel senso che diventerebbe una media azienda non in grado di competere in un settore di giganti. Ma trovino un Marchionne, piuttosto.


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