Giustizialisti e malfattori
La legge che blocca i processi del premier è a un passo dall'approvazione definitiva: si fermerà dunque il processo di Milano dove Berlusconi è imputato di corruzione giudiziaria, falso in bilancio, appropriazione indebita, frode fiscale e dove ci sono montagne di documenti per sostenere l'accusa. Intanto molti intellettuali si scagliano contro i "giustizialisti" e invocano la "legittimazione reciproca" degli schieramenti politici
(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 9 lug 2008)
Le anime belle come i professori Ernesto Galli Della Loggia o Angelo Panebianco, che continuano imperterriti a sostenere che di fronte al capo del governo la giustizia debba fare un passo indietro e a bollare come “giustizialista” chiunque chieda un minimo di rispetto per la legge, dovrebbero leggere, se non le 500.000 pagine dell’inchiesta di Milano su Berlusconi, almeno gli articoli scritti in questi anni sull’Espresso da Peter Gomez e Leo Sisti, tra i pochissimi giornalisti in Italia che si siano occupati di questa incredibile vicenda che ha come protagonista Berlusconi, i suoi figli Marina e Piersilvio, i suoi amici e i manager della Fininvest. Siamo ormai ad un passo dall’approvazione definitiva della legge che renderà Berlusconi non perseguibile per tutta la durata del suo mandato, e che impedirà che sia giudicato non solo per corruzione in atti giudiziari, che è praticamente la sola accusa di cui, chissà perché, si continua a parlare, ma anche per una serie di reati comuni quali appropriazione indebita, falso in bilancio e frode per tasse evase pari a 126 miliardi di lire.
La corruzione, infatti, riguarda un testimone, l’avvocato David Mills, marito di Tessa Jowel, ministro della Cultura nel governo Blair. E perché sarebbe stato corrotto? Per tacere cose che avrebbero procurato a Berlusconi un sacco di guai, come egli stesso ha ammesso. Mills era la mente di una intricatissima struttura finanziaria con società basate nei paradisi fiscali di mezzo mondo, dalle Isole Vergini alle Bahamas, alcune delle quali comparivano nei bilanci di Fininvest, altre no, pur facendo capo alla holding di Berlusconi. Questa struttura serviva tra l’altro ad uno scopo preciso. I diritti per i film delle major americane venivano acquistati da una di queste società, poi passati vorticosamente da una all’altra prima di raggiungere le loro destinazione definitiva, cioè Mediaset. In ognuno di questi passaggi aumentavano di prezzo, fino a raddoppiare rispetto a quanto pagato al primo fornitore. E la differenza finiva in altre due misteriose holding, anch’esse con sede nei paradisi caraibici: la Century One e la Universal One. L’inchiesta ha svelato il mistero: la prima fa capo a Marina Berlusconi, la seconda a Piersilvio, anche se la gestione se la riserva il capofamiglia.
Qualcuno potrebbe dire che in fondo si tratta anche questa volta di falso in bilancio, ex reato ormai ridotto al rango di un divieto di sosta e da cui Berlusconi è stato già tre volte prosciolto per prescrizione dei termini (ridotti, guarda un po’, dal suo governo). Si potrebbe magari aggiungere un po’ di evasione fiscale (cosa sono mai 126 miliardi?), ma in fondo lo stesso Berlusconi ha detto che quando si pagano troppe tasse è giustificabile: vogliamo punirlo perché è coerente con i suoi principi? In fondo, non ha fatto che passare dei soldi dall’una all’altra delle sue mille società. Invece no, perché il giochetto è andato avanti dall’inizio degli anni 90 almeno fino al 1999 e dal ’96 Mediaset è quotata in Borsa. Quei soldi, dunque, sarebbero stati sottratti ad una società che non era più soltanto di Berlusconi, ma anche, per quasi il 50%, degli azionisti di minoranza. I fondi sottratti in questo modo ammonterebbero a circa 550 miliardi di lire, quindi il Cavaliere si sarebbe appropriato di parecchi miliardi non suoi. Se la sentenza desse ragione all’accusa, come l’imponente mole di materiale probatorio fa ritenere probabile, a Berlusconi spetterebbe di diritto l’appellativo di “ladro”.
Quanto alla corruzione in atti giudiziari, sarebbe la terza volta che Berlusconi ci incappa. Le prime due volte (nei casi Mondadori e Sme) ha potuto usufruire della prescrizione (ancora!) grazie alla concessione delle attenuanti generiche, che però si concedono - a discrezione del tribunale - quando si è riconosciuto che il reato esiste: si è mai visto concedere le attenuanti a un innocente? E che cosa attenuerebbero? In questo caso, essendo la terza recidiva, sarebbe strabiliante se venissero concesse di nuovo.
Tra l’altro, in ogni occasione pubblica Berlusconi continua a ripetere di essere perseguitato dalla magistratura, come dimostra il fatto che “sono stato sempre assolto”. Mente, come del resto è sua abitudine inveterata. Una prescrizione non equivale a un’assoluzione. E la concessione delle attenuanti, come si è detto, è un’attestazione di colpevolezza.
Aggiungiamo, anche se non c’entrano con il processo di Milano, i comprovati (leggi qui) tentativi di corruzione di senatori per farli passare dal centro sinistra al suo schieramento. Chiedere che Berlusconi venga giudicato per reati che sono ben più di un’ipotesi è “giustizialismo”? E’ politicamente improponibile per il fatto che l’accusato è capo del governo e leader della coalizione maggioritaria? Nessuno ha sollevato obiezioni del genere, negli Stati Uniti, quando Richard Nixon è stato costretto a dimettersi da presidente perché è risultato che aveva infranto la legge. Nessuno ha impedito al procuratore Kenneth Starr di spendere milioni di dollari dei contribuenti per tentare di incastrare (e in questo caso sì in modo persecutorio) il presidente Bill Clinton, le cui avventure boccaccesche impallidiscono di fronte ai noti casi nostrani.
In proposito, viene il sospetto che la “questione di gnocca”, come ha elegantemente titolato l’apertura di Libero il suo direttore Vittorio Feltri, non sia alla fine che un diversivo, un modo per distrarre l’attenzione dalle ben più gravi accuse milanesi e per ottenere più facilmente il salvacondotto legislativo spostando la battaglia su un terreno di ben maggiore impatto sull’opinione pubblica meno avvertita.
Quella più avvertita, purtroppo, è costituita in buona parte dai pensosi intellettuali sostenitori della “legittimazione reciproca”, espressione con cui evidentemente si vuol dire che quando c’è di mezzo la politica si può ben legittimare anche il furto e la corruzione. Le abbiamo già sentite queste teorie, erano i primi tempi di Tangentopoli. Forse siamo caduti più in basso di allora.