Gli economisti che
non sanno la storia
Le materie storiche sono quasi sparite dagli insegnamenti universitari. E’ la conseguenza di una concezione dell’economia come “scienza delle leggi” e non come scienza umana, che comporta la pretesa che la complessità del reale possa essere interpretata attraverso modelli matematici. Una impostazione purtroppo maggioritaria che ha fatto molti danni e continuerà a farli
(pubblicato su Repubblica.it il 24 set 2017)
Historia magistra vitae, diceva Cicerone. Ma gli economisti – non tutti ma la maggior parte – se ne infischiano della storia. In un recente articolo su Eticaeconomia Bruna Ingrao denuncia che “si assiste alla progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista”. Nelle università ci sono rari corsi di materie storiche (di norma tra gli esami facoltativi) per lo più nel primo triennio. Come mai?
C’è una logica in questa follia, come spiega per esempio Alessandro Roncaglia proprio all’inizio della sua “Breve storia del pensiero economico” (ed. Laterza). “La tesi anti-storia del pensiero economico – scrive Roncaglia – si fonda su una concezione cumulativa dello sviluppo del pensiero economico, secondo la quale l’analisi economica è caratterizzata da una progressiva ascesa verso livelli sempre più alti di comprensione della realtà economica. Il punto di arrivo provvisorio del ricercatore di oggi – la teoria economica contemporanea – incorpora tutti i contributi precedenti”.
Secondo questa tesi, insomma, l’economista è come il matematico, che non ha bisogno di sapere come facevano i calcoli i Sumeri, o l’astronomo che potrebbe tranquillamente ignorare che un tempo si riteneva che la terra fosse piatta. L’economia sarebbe insomma una “scienza delle leggi”, e non una scienza sociale. Peccato che abbia a che fare con i comportamenti umani, che, a differenza delle reazioni chimiche, generano risultati largamente imprevedibili: e infatti gli errori delle previsioni economiche sono ormai proverbiali.
Spiega Bruna Ingrao: “La teoria economica contemporanea rivendica la libertà di modellizzazione: concepisce come compito della teoria la costruzione di modelli matematici immaginati come esperimenti mentali, definiti ora casi ideali, ora casi esemplari, ‘favole’ o ‘storie’. L’economista teorico rivendica la libertà di costruire nei modelli esperimenti mentali per trarne conclusioni in linea deduttiva. La prassi di ricerca dominante scava una distanza incolmabile tra la teoria e l’interpretazione, che non può essere colmata rigorosamente con il ricorso all’evidenza empirica, spesso neppure invocata a riscontro per la natura astratta dell’esperimento cognitivo costruito”. Insomma, questo tipo di economisti elabora modelli matematici basati su una semplificazione della realtà - perché nessun modello potrà mai tener conto delle infinite variabili esistenti - e che spesso si reggono su ipotesi del comportamento umano del tutto arbitrarie; e poi pretendono che i risultati delle loro equazioni rappresentino quello che succede. Sbagliando, ovviamente: anche quando il campo di indagine è così ristretto da essere incomparabilmente più semplice del funzionamento della società, come è avvenuto per esempio con le previsioni sui mondiali di calcio.
Questi economisti sono pericolosi. Brandendo le loro equazioni, in nome della Scienza, condizionano la vita delle persone non molto diversamente da quanto faceva la Santa Inquisizione nel nome della Verità. Le questioni etiche non li riguardano. E d’altronde, un chimico non si preoccupa certo di quanto stress potrà subire l’idrogeno durante il suo esperimento. La piccola differenza è che in questo caso gli “elementi” sono persone.
La scomparsa della storia dagli studi economici è un segnale, un segnale di quanto la scienza economica si sia allontanata dalla realtà e di quanto questa tendenza sia dominante e diffusa in tutti gli atenei. Qualcuno fermi questi apprendisti stregoni: di danni ne hanno già fatti abbastanza.