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 Politica Riduci

Il ritorno di Ghino di Tacco
Bettino Craxi fu paragonato da Eugenio Scalfari a quel brigante perché, col suo partito di ridotte dimensioni, aveva però un potere d’interdizione sulla formazione di maggioranze. E’ la situazione in cui oggi si trova Renzi: senza il Pd non ci sono maggioranze, e il segretario che ha tentato la carta delle finte dimissioni ha intenzione di sfruttare questo fatto

(pubblicato su Repubblica.it il 6 mar 2018)

Ghino di Tacco: così Eugenio Scalfari soprannominò Bettino Craxi, paragonandolo al bandito che dalla Rocca di Radicofani taglieggiava i pellegrini che passavano sulla vicina via Francigena. Il motivo non era amichevole – tra Scalfari e Craxi, si sa, non correva buon sangue – ed era dovuto al fatto che Craxi, determinante con il suo partito per formare una maggioranza, avanzava pretese a giudizio di Scalfari eccessive.  Craxi studiò la storia del personaggio e, scoperto che aveva fama di bandito-gentiluomo, da allora in poi firmò con quello pseudonimo i suoi corsivi sull’Avanti!.

Oggi la storia sembra ripetersi con Renzi. Il Pd è diventato troppo piccolo per pretendere di formare il nuovo governo, ma è abbastanza grande da esercitare un potere di interdizione su varie delle possibili soluzioni. E se dovesse essere escluso dai giochi, potrà fruire al prossimo giro del “dividendo da opposizione”.

Vale però anche in questo caso la famosa frase di Marx: “La storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. E se non ci fu tragedia negli eventi di quegli anni passati, c’è certamente la farsa oggi, con un Renzi che, passato da una sconfitta elettorale all’altra, finge un’altra volta di dimettersi, ma non ora, dopo che i passaggi più delicati della nuova legislatura saranno stati fatti sotto la sua gestione del partito. Poi si dimetterà, ma per partecipare di nuovo alle primarie che rieleggeranno il segretario. Dimissioni posticipate e con l’elastico.

Questo è dunque il primo esito di un risultato elettorale che mai è stato così vicino alle previsioni della vigilia. Forse non per Berlusconi, che era convinto di prendere più voti della Lega. Forse non per Renzi, che ha continuato a ripetere che il Pd puntava ad avere il maggiore gruppo parlamentare, ancora illudendosi che il 40% del “sì” al referendum fosse una conferma del 40% delle europee del 2014. Forse non per D’Alema, che più d’una volta aveva detto di aspettarsi per LeU “un risultato a doppia cifra”. Forse non per Bersani, che, in un talk show pochi giorni prima del voto, a chi gli faceva osservare che i sondaggi per LeU andavano male, replicava di vedere intorno a lui grande entusiasmo e quindi i sondaggi certamente sbagliavano. E tralasciamo l’endorsement di Prodi a Insieme, che ha proiettato quel raggruppamento allo 0,6%.

Cinque leader che hanno segnato gli ultimi tre decenni di vita politica italiana, e che hanno in questo modo dimostrato di essere irrimediabilmente fuori tempo, lontani anni luce dal saper interpretare le richieste degli elettori. Vecchi, dunque (dove diventa evidente che la qualifica di “vecchio” non c’entra con l’età anagrafica).

Il Pd è crollato come sono crollati – chi più chi meno disastrosamente – gli altri partiti ex di sinistra in tutta Europa: bene, questa è una spiegazione, ma non una giustificazione. Anzi, il contrario: il crollo degli altri doveva servire da insegnamento, e invece non ha insegnato nulla. Non al Pd renziano, e neanche a Liberi e Uguali, i cui dirigenti si sono illusi che bastasse separarsi da Renzi per sembrare diversi. Non era così e a qualcuno era chiaro da prima del voto, ma l’avvertimento è rimasto inascoltato (con l’eccezione di Stefano Fassina, che però non è riuscito a far ragionare il suo partito). Se si fanno le debite proporzioni, LeU è andato anche peggio del Pd: non solo non ha attirato i transfughi di sinistra, ma non è riuscito nemmeno a raggiungere i risultati di Sel in precedenti prove elettorali.

A LeU è mancata la credibilità di voler proporre una vera alternativa, di restituire alla definizione “sinistra” il significato che aveva in passato. Molte delle istanze proprie di un partito di sinistra sono echeggiate invece nei discorsi dei partiti “populisti” o di destra: 5S, Lega, Fratelli d’Italia (che ha raddoppiato i voti). Lasciamo un momento da parte la definizione di “populista” e occupiamoci delle destre. Non è una novità che adottino parole d’ordine della sinistra: la “piccola” differenza è che, se vanno al potere (anche grazie a quelle), la loro politica è antipopolare. Trent’anni di predominio delle politiche di destra – anche quando gestite da partiti ex socialdemocratici – non dovrebbero lasciare dubbi in proposito.

“Populista” è uno di quei termini il cui significato è stato da tempo distorto. Si riferiva a partiti e movimenti che promettevano misure che avrebbero beneficiato molta gente, ma erano irrealizzabili. Ormai da qualche tempo questa etichetta viene affibbiata a chiunque proponga soluzioni diverse da quelle gradite al pensiero dominante. E infatti vengono così definiti tutti i soggetti politici che non appartengono all’area liberista (da Forza Italia, al Pd, ai centristi di ogni tipo, ai supposti “tecnici”). Oggi con questo termine ci si riferisce in particolare alla Lega e ai 5S: solo che la Lega è semplicemente di destra, e i 5S non hanno ancora deciso che cosa faranno da grandi. Il problema è che grandi ci sono già diventati. Se comunque guardiamo alla scelta di chi diventerebbe ministro dell’Economia qualora andassero al governo, Andrea Roventini, la bilancia pende a sinistra: è soprattutto la politica economica il discrimine fra i due schieramenti, e le idee di Roventini (ottimamente analizzate in un articolo di Keynesblog) sono certamente alternative al pensiero dominante.

Per piacere al popolo degli elettori – cosa che in democrazia dovrebbe essere l’obiettivo dei partiti – bisogna essere per forza “populisti”? Veramente non si direbbe. Durante la vituperata Prima Repubblica quel termine era in disuso, utilizzato solo da qualche storico contemporaneo per ricordare “L’Uomo qualunque” di Guglielmo Giannini, eppure i partiti avevano una presa assai più salda che in seguito e la percentuale di votanti alle elezioni era ben più alta che ora. Però quelle che si fronteggiavano erano proposte realmente alternative e, soprattutto, c’era la sensazione di progredire, che il futuro potesse essere migliore. Oggi la sensazione è opposta, e con ragione: grazie alla politica iniziata negli anni ’80 con la reazione di Thatcher e Reagan e perseguita spietatamente dall’Europa a guida tedesca, i posti al sole sono per pochi. Per la maggioranza la prospettiva è di lavori malsicuri e malpagati – se va bene – e, per il futuro più lontano, una pensione da fame, anche questa se va bene. E’ così irragionevole che i governi cadano quasi tutti come birilli alla prima prova elettorale?

In questa situazione a guadagnare consensi è la destra, in alcuni paesi anche quella estrema. Perché finge di fare opposizione e sfrutta, con il problema dei migranti, l’eterno imbroglio di additare un “nemico esterno”. Invece la sinistra storica si è suicidata, accettando la teoria che non ci fossero alternative alla politica liberista, e che si poteva al massimo cercare di limitare il danno. E’ ciò che è successo anche in Italia, raggiungendo l’apoteosi con il Pd di Renzi, che per giunta quella politica l’ha applicata in modo cialtronesco, colpendo i diritti sociali senza nemmeno migliorare i conti pubblici. Liberi e Uguali ha preso le distanze da Renzi, ma non da quella politica: non abbastanza e non chiaramente, in ogni caso. E infatti i risultati si sono visti.

Le elezioni italiane ci consegnano una situazione in cui la destra è poco sotto la maggioranza, e l’alternativa è rappresentata dai 5S, che si dichiarano a-ideologici ma appaiono soprattutto ondivaghi, come accade quando non si ha un chiaro modello sociale da perseguire, e non sono certo privi di contraddizioni. Se c’è ancora qualcuno che pensa che l’alternativa alla destra è la sinistra, dovrebbe ricominciare a ricostruirla: ma non potrà farlo se non si libera degli errori del passato.


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