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 Stato sociale

Il profit del non profit

Una inchiesta di "Report" sugli esternalizzati degli ospedali romani scoperchia una situazione scandalosa: centinaia di lavoratori precari da anni e con retribuzioni da fame. Ma l'ospedale non risparmia, anzi, spende più che se li assumesse. Il caso impone anche una riflessione sulla realtà della cosiddetta "economia sociale"

(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 18 nov 2006)

Altro che “economia sociale”… Report, la trasmissione di Rai3 a cura di Milena Gabanelli, ci ha offerto, nella puntata di domenica 12 novembre, uno spaccato impietoso di come funziona quello che viene chiamato, con alcune sfumature di significato, Terzo settore, non profit o economia sociale.

 

L’inchiesta di Piero Riccardi e Michele Buono ha indagato sulle condizioni dei nuovi lavoratori “flessibili” ed “esternalizzati” impiegati in alcuni ospedali romani – pubblici, si badi bene – e ne sono venuti fuori una serie di fatti che non possono che essere definiti scandalosi. La puntata, per chi l’avesse persa, è visibile (o, a scelta, leggibile) sul sito di Report, a questo indirizzo. La consigliamo caldamente a chi, nella sinistra, è convinto che il non profit sia una valida alternativa al servizio pubblico.

 

Ne riassumiamo i risultati. Gli ospedali pubblici romani (non solo quelli in cui si è svolta l’inchiesta, Policlinico e Sant’Andrea, anche gli altri) e presumibilmente anche del resto d’Italia fanno ormai largo uso del lavoro in appalto, affidato a cooperative che sono naturalmente riconducibili ai vari gruppi politici, di ogni colore. Queste cooperative forniscono cuochi, archivisti, trasportatori, eccetera, e anche moltissimi infermieri. Tutte queste persone o sono soci delle cooperative o sono assunti con i vari tipi di contratti precari. Guadagnano dai 300 agli 800 euro (gli infermieri di più) e naturalmente sono privi delle garanzie del lavoro “normale”. Il loro precariato dura quasi sempre da anni, alcuni hanno dichiarato addirittura da una decina e hanno ben poche speranze di migliorare la loro condizione. Alle gare partecipano sempre le stesse cooperative, che però si combinano tra loro in modi diversi ad ogni gara e periodicamente spariscono per rinascere subito dopo con altri nomi.

 

Ma, si dirà, per lo meno ci sarà un risparmio di denaro pubblico. Gli ospedali, in questo modo, spenderanno meno che se facessero fare quegli stessi compiti a lavoratori assunti in proprio a tempo indeterminato. Del resto, questo è proprio uno dei capisaldi della teoria dei sostenitori del non profit: il costo sarebbe minore perché il “privato sociale” è più efficiente del burocratizzato apparato pubblico. Ebbene, non è vero neanche questo.

 

Ha spiegato Erminia Costa, dei Cobas dell’Ospedale Sant’Andrea: ”Noi abbiamo preso i capitolati d’appalto delle varie ditte e visto quando l’azienda ospedaliera Sant’Andrea pagava per ogni dipendente. C’è venuto fuori un totale di nove milioni e 741 euro 755; poi abbiamo fatto un’altra colonna, abbiamo preso quello che è il trattamento economico con la tredicesima mensilità del comparto sanità e moltiplicato per il numero dei dipendenti e la cifra è 7 milioni 443 mila 829, questa è la differenza, attualmente l’azienda paga alle ditte esterne 9 milioni 740 e rotti milioni di euro, se li assumesse ne spenderebbe 7 milioni 443 quindi avrebbe un risparmio annuo di due milioni 298 mila euro annui su 315 lavoratori”. (dal testo della trasmissione)

 

Mica male, spendere un 25% in più per tenere le persone sottopagate, nell’incertezza e nel precariato. E che cos’è quel 25%? Il profit del non profit, evidentemente; o meglio, un sovra-profit, perché il margine dell’impresa è già compreso nell’importo dell’appalto al netto delle spese.

 

Il caso si potrebbe aggiungere ai tanti altri di cui purtroppo sono piene le cronache, ma merita qualche riflessione in più per la qualità dei protagonisti e per il contesto in cui è maturato. I protagonisti (nel senso degli intermediari del lavoro) sono quasi tutti cooperative e il contesto è quella corrente culturale – ma forse sarebbe meglio dire ideologica – secondo cui il welfare come lo conosciamo è roba del secolo scorso e va completamente rivoluzionato.

 

Sono idee che vengono da lontano, affondano le loro radici in quella parte della cultura cattolica che propugna un principio di sussidiarietà il più possibile allargato e tende a dilatare il ruolo dei “corpi intermedi” della società civile (idee, peraltro, anche queste del secolo scorso, anzi, di fine ‘800). Hanno però conosciuto una nuova giovinezza da una decina d’anni a questa parte, trovando il principale  teorizzatore in un professore bolognese, Stefano Zamagni, tra l’altro amico di Romano Prodi. Ma se ne sono aggiunti molti altri, come ad esempio Giorgio Vittadini, già presidente della Compagnia delle Opere, e non solo in campo cattolico ma anche nella sinistra: Giorgio Ruffolo, per esempio, è un convinto sostenitore dell’”economia sociale” e anche Giuliano Amato la guarda con attenzione.

 

Il problema, sostiene Zamagni, non è tanto la crisi fiscale dello Stato, quanto piuttosto la sua deriva burocratica e dirigista, incapace di cogliere i reali bisogni dei cittadini e comunque di soddisfarli in modo adeguato. Ben altra efficacia ed efficienza ha invece il “privato sociale”. Intanto perché il privato è per definizione più efficiente del pubblico; poi perché, appunto, è più vicino ai cittadini e ai bisogni che esprimono; ma soprattutto, conclude Zamagni – e considera questa la differenza decisiva – per la motivazione di chi vi lavora, caratteristica che certo non può avere un impiegato pubblico. Per giunta costa meno, perché non spreca. E’ anche migliore del privato in senso tradizionale, perché il l’obiettivo non è quello di massimizzare il profitto anche a scapito della qualità del servizio (anche questa è una petizione di principio, che non ci si cura di giustificare a livello teorico).

 

Come argomentazioni di questo livello possano essere ritenute convincenti anche da persone di elevata preparazione e intelligenza, resta un mistero. Fatto sta che, sulla base di esse, i profeti dell’economia sociale proclamano che lo Stato “deve ritirarsi” e lasciare loro il campo nell’istruzione, nella sanità, nell’assistenza, nella cultura, nei servizi al lavoro e in quelli ricreativi. Lo Stato deve ritirarsi anche con l’erario: perché tutte queste attività devono essere sostenute – in quanto socialmente meritevoli – da una generosa detassazione.

 

Complice anche il pessimo funzionamento della nostra macchina amministrativa in tutti i suoi aspetti, queste idee si sono fatte spazio e hanno dato vita a una lobby di notevoli dimensioni: non solo la Compagnia delle Opere e una buona parte dell’area culturale cattolica, ma anche il volontariato – che invece con questa visione non dovrebbe avere nulla a che spartire – associazioni storiche come le Acli e l’Arci, in difficoltà dopo la fine del collateralismo della Prima Repubblica, le coop “rosse”: convinti o no che fossero della teoria, tutti questi soggetti avevano ben capito che le conseguenze sarebbero state loro favorevoli. E quando si riesce a mettere insieme un agglomerato di questa portata, è chiaro che non si otterrà tutto, ma sicuramente più di qualcosa, perché ci sono molti politici attenti a cavalcare le mode sociali. Anche la vicenda del cinque per mille delle tasse (vedi) deriva da questa situazione. A tutto questo si sono aggiunti gli infausti blocchi del turn-over nella pubblica amministrazione, il cui effetto è stato di far proliferare oltre misura il precariato pubblico e gli appalti esterni.

 

L’inchiesta di Report ci fa tornare dalle pseudo-teorie nel bel mezzo della realtà, e quello che emerge non è edificante. Il fatto è che a queste esperienze si potrebbe anche lasciare un qualche spazio, ma a patto di avere alle spalle un forte amministrazione pubblica che controlli, cioè che funzioni, il che è appunto il problema a causa del quale le medesime esperienze si sono sviluppate.

 

In questo come in altri campi, si sprecano molti mezzi ed energie alla ricerca di “terze vie”. Ma sarebbe meglio impiegarli per far funzionare la pubblica amministrazione, cosa del tutto possibile come dimostrano le esperienze di altri paesi. In fondo, proprio lo Stato è il vero non profit.

 

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