Gli intellettuali, chierici o chierichetti? |
Sedicenti liberali che si dichiarano 'atei devoti', laici che prendono le distanze dal relativismo, ma facendone una caricatura. Dimenticando che possono benissimo esistere sistemi di valori che non hanno bisogno di una legittimazione trascendente
(Pubblicato su Eguaglianza & libertà il 13 mag 2005)
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E se fosse più laico Carlo Maria Martini, ex arcivescovo di Milano, di quasi tutti i nostri intellettuali? Di questi tempi, tra la morte di Wojtyla, l'intemerata di Ratzinger contro il relativismo e il referendum sulla fecondazione assistita, gli interventi, le riflessioni e le prese di posizione sui problemi dell'etica e dei valori si sono sprecati. Offrendo, mediamente, un panorama desolante. A destra e a sinistra.
Per un Giuliano Ferrara che, repentinamente folgorato dalla sacralità dell'embrione, dichiara sul Foglio di essere alla ricerca di una nuova etica - dando l'impressione, sia detto senza offesa, di un incorregibile puttaniere che afferma di essere alla ricerca del vero amore - c'è un Giuliano Amato che, intervistato da Repubblica (25.4.05), si chiede: "Non è che ora qualunque cosa appaia conveniente al singolo la trasformiamo in valore assoluto e in un diritto intangibile, in nome della libertà?". Una posizione ratzingeriana, che egli rivendica ante litteram. E se in Amato si intuisce il tentativo di gettare un ponte fra laici e cattolici (ma è sulle soluzioni che si media, non sui principi), che cosa pensare di un sedicente liberale come Marcello Pera, subito pronto a sposare le posizioni degli "atei devoti", secondo la definizione inventata da Ferrara?
Così, non si può trattenere un respiro di sollievo leggendo sul Corriere della Sera (9 maggio) le parole pronunciate da Martini durante la sua recente messa celebrativa in Duomo. Sul relativismo, scrive il Corriere, Martini dà ragione al Papa: non è vero che tutte le verità sono uguali, che una vale l'altra. Ma sarà "al momento in cui tutta la storia sarà palesemente giudicata", cioè alla fine dei tempi, "quando verrà il Signore, che tutti sapremo. Allora si compirà il giudizio sulla storia, e sapremo chi aveva ragione".
"Ho un sogno", avrebbe detto Martin Luther King: il sogno che tutti i credenti, di qualsiasi religione, arrivino a pensarla come Martini; e che anche i non religiosi raggiungano un uguale livello di rispetto degli altri. Nel frattempo, non è inutile ripetere alcuni concetti. Niente di nuovo o di particolarmente complicato, poco più che filosofia da liceo, ma sembra che a ricordarsene, di questi concetti, siano rimasti in pochi.
La verità. Ratzinger, in questo in nulla diverso da Wojtyla, è convinto non solo della superiorità dell'etica cristiano-cattolica rispetto a qualsiasi altra, ma del suo sovraordinamento a qualsiasi altra legge sulla terra. Se Wojtyla, nel suo ultimo libro, ha affermato che neanche i Parlamenti democratici sono legittimati a legiferare contro la "legge di Dio" - sull'aborto, per esempio - Ratzinger sembra avere una visione anche più radicale della questione. Come ha sottolineato Eugenio Scalfari su Repubblica del 21 aprile, il nuovo papa appare convinto della necessità che i precetti della Chiesa si traducano in leggi degli Stati, o quantomeno le leggi siano rispettose di quanto la Chiesa afferma, perché - sostiene Ratzinger - sono in definitiva essenzialmente le leggi a formare la coscienza etica dei cittadini. "Il diritto crea la morale o una forma di morale - ha detto in un'intervista a Marco Politi, sempre su Repubblica (19 gennaio) - perché la gente normale comunemente ritiene che quanto afferma il diritto sia anche moralmente lecito".
Non stupisce una tale impostazione da parte di chi ha affermato che il relativismo etico è il peggior nemico della Chiesa nel mondo moderno, di chi pensa che esso consista nel "lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento", che sta instaurando "una dittatura che non riconosce nulla come definitivo lasciando come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie" e che il suo effetto è che si possono cambiare valori ogni giorno come si cambiano i calzini. Stupisce che un uomo intelligente, colto, studioso di filosofia, sia talmente accecato dalla sua fede da non vedere quanti errori la Chiesa abbia commesso, in quello che affermava e in quello che faceva, nei suoi due millenni di esistenza. Errori alcuni dei quali il suo predecessore ha pubblicamente riconosciuto, chiedendo scusa ai discendenti di chi fu costretto a subirli.
Stupisce che trascuri il fatto che, ammesso (e non concesso) che esista una verità assoluta, quella che promana da Dio, il problema è che sono poi gli uonini a interpretarla, e in questo passaggio non può che perdere il suo carattere di assoluto, diventando nient'altro che una interpretazione umana. Non si vede dunque perché quella interpretazione debba prevalere su qualsiasi altro sistema di valori: almeno, se non si crede nello Spirito Santo, che renderebbe il Papa infallibile (per affermazione, naturalmente, di un Papa) quando parla ex cathedra. Su questioni di fede, peraltro, non di morale.
Ma che la Chiesa abbia dato interpretazioni sbagliate di quella verità, o meglio, interpretazioni legate alla storia e alla cultura delle diverse epoche, lo ha ammesso per ultimo anche il "Grande" Giovanni Paolo II. E se i valori (o le loro interpretazioni) non si evolvessero con la storia, la Chiesa starebbe ancora a bruciar streghe, a torturare presunti eretici, a perseguitare gli ebrei "deicidi", a sostenere che la donna non ha l'anima fino a una certa età. Adesso invece ci rivela che l'anima ce l'ha anche l'embrione (senza distinzione di sesso, per fortuna).
I valori. Negare che esista una verità assoluta o affermare che, anche se esistesse, la sua interpretazione è fatta dagli uomini, e quindi il carattere di assoluto si perde in ogni caso, non significa negare che esistano valori, che sia necessaria un'etica, che "bene e male", "giusto e ingiusto" siano concetti totalmente opinabili, personali, e che qualsiasi punto di vista abbia pari dignità. Questo è un relativismo d'accatto, la caricatura del relativismo. Il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, esistono, ma si evolvono in ogni momento storico in base al lavoro del pensiero umano e in base ai contesti che lo condizionano. I valori sono "universali" quando anche chi - tacitamente, o comunque di fatto - non li condivide, nonostante questo non li contesta esplicitamente; e anche se agisce in contrasto con essi cerca di accreditare la sua azione come un modo per perseguirli. Oggi, per esempio, è un valore la preservazione della vita umana; è un valore il rifiuto della guerra: non è sempre stato così.
Il fatto che questi valori non derivino da un assoluto, ma siano storicamente determinati, li rende più "deboli"? Non si vede perché. D'altronde, non è affatto una visione laica quella di chi rifiuta un'origine religiosa dei valori ma li fa poi derivare dalla "natura", dell'uomo o del mondo. Cosa sarebbe mai questa "natura"? Credere in Dio o in Allah, nella Natura o nel Grande Cocomero, da un punto di vista teoretico (da "quel" punto di vista, si badi bene) non fa molta differenza.
I "valori del tempo" sono univoci? No, non lo sono. E non lo possono essere, proprio perché derivano dal confronto, dalla dialettica, dall'evoluzione delle società. La ricerca dei "valori universali" è una continua ricerca di equilibri migliori del precedente, che probabilmente saranno a loro volta prima o poi superati. Valori di gruppi diversi competono tra loro. La relatività di questi valori non impedisce a me, europeo del XXI secolo, di affermare che l'infibulazione è una pratica barbara e che i sacrifici umani debbono essere vietati. Il relativismo non comporta necessariamente di considerare "giusto" o "sacro" un principio o un comportamento perché tale è ritenuto da una cultura diversa. Io combatterò perché si affermi il "mio" codice etico (quello della mia cultura), ma conservando la coscienza che non sto innalzando il vessillo della Verità, ma di quello che la mia cultura considera "giusto".
Chiesa e Stato. Un laico, dunque, non può accettare una superiorità di tipo ontologico dell'etica religiosa. Accetta, però, che ci siano poche o tante persone che la pensano in questo modo. Naturalmente, preferirebbe che fossero tutti Martini piuttosto che tutti Ratzinger. Ma questo poco rileva rispetto al problema dell'organizzazione della convivenza.
Quali pensa che siano, un laico, i limiti all'azione della Chiesa all'interno dello Stato? Per un laico, il Papa e i suoi vescovi hanno l'ultima parola - e anche la prima - sulla verginità o meno della Madonna dopo il parto, per esempio, o sulla natura una e trina di Dio. Possono stabilire la loro verità e imporre ogni precetto che ritengano giusto o opportuno all'interno della comunità cattolica. Possono vietare l'aborto, il divorzio, l'inseminazione eterologa, l'uso di anticoncezionali - anche quando c'è un forte rischio di Aids, come in Africa e in America Latina - a chi appartiene alla Chiesa, restando salvo, ovviamente, il diritto degli altri di criticare queste scelte. Hanno - devono avere - ogni libertà di esprimere qualsiasi posizione, su qualsiasi materia di morale, e altrettanta libertà di sostenere posizioni politiche, anche al di fuori della Chiesa: la stessa libertà che deve avere qualsiasi altro gruppo o comunità che resti nei limiti della Costituzione e delle leggi. Alla Chiesa si deve riconoscere anche la libertà di cercare di influenzare la formazione delle leggi, facendo lobbying come e quanto può: non si può negare alla Chiesa lo stesso diritto che ha qualsiasi altro gruppo - politico, sociale, culturale - che naturalmente cerca di far tradurre in norme generali quello che, secondo il suo modo di vedere, è "giusto".
Il problema non è della Chiesa. E' dello Stato. E' lo Stato che deve essere a-confessionale, neutrale, garantire tutti i cittadini. Perché lo Stato è dei cattolici, delle altre confessioni cristiane, degli ebrei, dei mussulmani, di chi professa altre fedi e anche di chi è alieno da ogni trascendenza. Lo Stato deve permettere a tutti di vivere secondo i propri valori, con l'unico limite che essi siano compatibili con quanto è stabilito nella Costituzione e con le ragionevoli necessità della convivenza. Il cattolico ha tutto il diritto di combattere perché vengano ostacolate le unioni omosessuali, per esempio. Il parlamentare cattolico no. Perché non rappresenta solo il suo gruppo culturale ma tutti i cittadini. Ciò non significa, ovviamente, che non possa avere le proprie opinioni. Ma il suo ruolo gli impone di non basare il suo comportamento sulle prescrizioni della Chiesa (cioè di un gruppo particolare), ma di valutare cosa fare in base al Patto fondamentale su cui si basa lo Stato, cioè la Costituzione.
Chiedo scusa se ho ripetuto alcune cose banali. Ma sembra purtroppo che molti le abbiano dimenticate. Molti intellettuali, soprattutto, per i quali il pamphlet di Julien Benda resta, dopo quasi 80 anni, ancora attuale.